Oggi è un
giorno importante, anche se se ne è parlato poco: è l’anniversario dell’introduzione
del diritto di voto alla donne. Sì, perché vale la pena ricordare che abbiamo
conquistato questo diritto fondamentale solo nel 1945, proprio il 1° febbraio.
È importante
commemorare questa data perché ci permette di cogliere in prospettiva i
progressi fatti. Sono molti, anche se a volte non sembra. So che sono molti
perché quando penso che quando mia madre è nata le donne non potevano ancora
votare, mi sembra pazzesco. Solo 67 anni fa. Non proprio preistoria, ed è già
incredibile.
È anche
importante commemorare questa data perché la strada è ancora lunga, e abbiamo
il dovere di regalare alla prossima generazione di donne la stessa sensazione
di guardare indietro a come viviamo noi oggi con la stessa incredulità.
Per
fare questo, a volte è necessario guardare indietro e ricordare. Nel farlo, mi
piace condividere con voi stralci di ciò che ha detto Lidia Menapace in un bell’intervento svoltosi nella
sala del consiglio comunale di Pesaro nel 2005, e riportato da Giacomo Alessandroni.
“Pochi mesi prima della conclusione del secondo
conflitto mondiale, il secondo governo Bonomi - su proposta di Palmiro
Togliatti e Alcide De Gasperi - introduceva in Italia il suffragio universale,
con Decreto Legislativo Luogotenenziale n. 23 del 1° febbraio 1945, "Estensione alle donne del diritto di voto".
A 154 anni dalla "Dichiarazione dei diritti delle donne e delle cittadine"
firmata da Olympe de Gouges che
purtroppo le valse - nel 1793 - la ghigliottina, in Italia finalmente le donne
si poterono recare alle urne. Una prima volta che assunse una valenza ancor
maggiore poiché avvenne in occasione del Referendum del 2 giugno 1946 in cui
gli italiani furono chiamati a scegliere fra Monarchia e Repubblica.
La struttura del decreto era la seguente:
l'art.
1 ne sanciva l'esercizio alle condizioni previste dalla legge elettorale
politica;
l'art.
2 ordinava la compilazione di liste elettorali femminili distinte da
quelle maschili;
l'art.
3 stabiliva che, alle categorie escluse dal diritto di voto, dovevano
aggiungersi le donne indicate nell'art. 354 del Regolamento per
l'esecuzione del Testo Unico delle leggi di Pubblica Sicurezza, ovvero le
prostitute schedate che esercitavano "il meretricio
fuori dei locali autorizzati".
Il
Decreto n. 74 del 10 marzo 1946, "Norme per l'elezione dei
deputati all'Assemblea Costituente", sanciva - un anno
più tardi- l'eleggibilità delle donne.
Malgrado Palmiro
Togliatti, con Alcide De Gasperi, ne fosse stato uno strenuo sostenitore, la
partecipazione della componente femminile alla competizione elettorale generava
non pochi timori all'interno dei partiti della sinistra, infatti l'influenza
della chiesa sulle coscienze femminili veniva ritenuta determinante e in grado
di orientare significativamente le elettrici. A fungere quale "cerniera di trasmissione tra le posizioni politiche della Democrazia
Cristiana e quelle più spirituali delle donne di AC", d'altro
canto, era il Centro Italiano Femminile, creato dall'Istituto Cattolico di
Attività Sociale allo scopo di condurre le masse femminili cattoliche ad
esercitare in modo 'appropriato' il
diritto di voto e ad attivare iniziative assistenziali e formative in grado
anch'esse di produrre effetti in tal senso.
Ad onor del vero,
in Italia, le donne potevano già votare - solo per le amministrative - sin dal
1924. Benito Mussolini sulla carta le
aveva riconosciuto il diritto di voto al fine di dimostrare che non temeva
l’elettorato femminile, anzi. Fu però non solo un atto di pura demagogia, in
quanto la dittatura aveva già deciso la proibizione di qualsiasi elezione per
comuni e province, sostituendoli con i podestà ed i governatori; costituì un
ulteriore ostacolo al cammino per il suffragio universale in Italia dove la
legge del 1866 per l’unificazione della legislazione della nuova Italia aveva
privato del diritto di voto - solo amministrativo - le donne della Toscana e
del Lombardo Veneto che lo avevano sino ad allora esercitato. Poi una lunga
serie di bocciature e decadenze di progetti anche se estremamente limitati. Nel
1871, ad esempio, il presidente del Consiglio e ministro dell’Interno Giovanni Lanza propose che le donne "potranno mandare il loro voto per iscritto" insomma,
che per carità non si presentino ai seggi, ma solo per le amministrative:
"Qualche fondamento può esservi nelle costumanze per
negar loro il voto politico". Ma il progetto decade alla
chiusura della sessione. Dieci anni dopo sarà […] Agostino Depretis a riproporre la necessità che le donne
votino sempre solo per le amministrative. La commissione della Camera modifica
il progetto, lo circoscrive ancora (niente voto per posta, semmai "per delega", al marito) ma poi tutto si arena di
nuovo, fino al 1945.
[…] Il diritto di
voto era importante e necessario, era cosa necessaria ma non sufficiente;
infatti se a votare è metà della popolazione questo fatto provoca mutamenti e
amputazioni nella democrazia. Il primo diverbio avvenne durante il parto del
decreto. Ci si chiedeva diceva infatti: "Le donne
devono votare?". […] Le donne si ritrovano sotto esame, con un
diritto di cittadinanza non consolidato. Infatti, seppur fondamentale, il
diritto di voto non coincide col diritto di cittadinanza.
[Anche] l’articolo
51 della Costituzione "Tutti i cittadini dell’uno o
dell’altro sesso possono accedere negli uffici pubblici e alle cariche elettive
in condizioni di uguaglianza" non garantì per molti anni la
tutela di quel diritto. Tale accesso non fu accolto in modo esplicito dalla
Costituente, la quale respinse l’emendamento aggiuntivo all’articolo sulla
nomina dei magistrati "Le donne hanno accesso a tutti
gli ordini e gradi della magistratura" che voleva essere
introdotto nel timore, suscitato dall’andamento del dibattito che l’articolo in
questione non fosse sufficiente a garantire quell’accesso. Una donna avvocato
rilevava che con il voto della Costituente era passata "l’assurda ipotesi di un individuo (donna) capace politicamente di partecipare
alla formazione di una legge, capace di far parte del governo, ed incapace poi,
per una non chiarita insufficienza mentale, di applicarla nei casi concreti".
Il divieto d’acceso delle donne alla magistratura venne ribadito negli anni da
varie sentenze. Nel 1956 è pronto un disegno di legge, per opera di Aldo Moro, il quale socchiude le porte delle aule di
giustizia alle donne, che potranno accedere esclusivamente alle giurie popolari
con il limite massimo di tre su sei (norma che resterà in vigore fino al 1978)
e ai tribunali minorili. Concessione minima, ma sufficiente ad essere
contestata dai magistrati, una casta chiusa e impenetrabile alla concorrenza,
non avvezzi ad essere criticati -figuriamoci giudicati - dalle donne. Giuristi,
magistrati, professori e politici riciclavano argomenti dell’800 per negare il
titolo di elettore e quello di avvocato alle donne, con un'aggiunta: la
convinzione che la donna non potesse essere in grado di giudicare in certi
giorni del mese, di essere troppo emotiva, di non essere sufficientemente
razionale, e l'elenco potrebbe continuare. La legge Moro viene approvata e si
attenuano un po' i toni: "è opportuno l’intervento della
donna in seno alla magistratura per i minorenni i cui problemi vanno risolti,
più che con l’applicazione di fredde formule giuridiche con il sentimento e la
conoscenza del fanciullo che è proprio della donna". Ancora
funzioni che sono l'estensione della figura materna. Opinione largamente
diffusa in quegli anni -anche tra i magistrati più aperti al problema - è:
"l’idea di essere giudicati da donne provoca un
senso di fastidio". Nel 1958 viene indetto un concorso per
uditore giudiziario, il primo gradino della carriera. Il bando di concorso
precisa che i candidati devono essere di sesso maschile. La Costituzione è
entrata in vigore da dieci anni, ma la parità nei concorsi statali non è per
niente rispettata. Solo nel 1963 la legge n.66 rende giustizia all’art. 51
della Costituzione, ammettendo le donne a tutti i pubblici uffici senza
distinzioni di carriere né limitazioni di grado.
Questo è il
panorama per quanto riguarda il lavoro. Passando alle mura domestiche notiamo
quanto a lungo è sopravvissuto lo jus corrigendi (il
potere correttivo che comprendeva anche la "coazione
fisica", in sostanza botte e maltrattamenti). Verrà abrogato
con una sentenza della Corte di Cassazione del 1956 la quale stabilisce che al
marito non spetta nei confronti della moglie lo jus corrigendi, il tutto
nonostante l'articolo 29 della Costituzione sancisse l'eguaglianza morale e
giuridica dei coniugi. Una triste nota a margine, ma da non dimenticare, è che
fino al 1956 era sì punito l'abuso dello jus
corrigendi, ma per abuso si intendeva un ricovero ospedaliero di almeno venti
giorni. La conclusione da trarre è che l'Italia, fino a qualche decennio fa, si
è comportata come tanti altri paesi che oggi additiamo come modelli negativi.
Come sono andate le cose
Le donne hanno
compiuto nella scuola e nell'istruzione in genere un processo di emancipazione passiva, andando via, via ad occupare i posti
di lavoro scartati dalla popolazione maschile. Dall'inizio del XX secolo c'è
stata lotta per ottenere posti all'interno di strutture come le ferrovie o
delle poste. La presenza delle donne nel mondo del lavoro è documentata dai
censimenti della popolazione italiana, che fotografarono, in decenni
successivi, l’evolversi del fenomeno e le sue sfaccettature. In particolare, il
censimento del 1881 evidenziò che il 51% della popolazione femminile (contro
l’84.6% di quella maschile) era occupato stabilmente in un’occupazione
extradomestica che la caratterizzava tanto da classificarla ai fini di un
documento ufficiale quale appunto un censimento. Il 27% delle donne era
occupato in agricoltura, il 16.9% nell’industria, un 4% era definito personale
di servizio, mentre nelle altre professioni la presenza delle donne presentava
percentuali inferiori all’1%.
[…] Si dice che per talune professioni (come avvocato, ministro) non si
usa il femminile poiché non è presente nella lingua e nella tradizione
italiana. Nulla di più falso. Il "Salve Regina"
(la più celebre delle quattro antifone mariane, composta probabilmente da San
Bernardo di Chiaravalle, deceduto nel
1153) in un suo passo recita "Eja ergo, advocata nostra"
il quale in italiano viene tradotto senza timore alcuno con "Orsù dunque, avvocatanostra".
Per non parlare di Ugo Foscolo dove, nell'"Ai Novelli Repubblicani",
scrive "né il falso e il ver distingue:/quindi ministraomai/d'oligarchica
rabbia/sogna menzogne e guai.". Naturalmente l'elenco potrebbe continuare
ma non è questo il punto: se accettiamo a cuor leggero vocaboli come cliccare
o dribblare, come mai fatichiamo tanto ad inserire nel nostro
lessico quotidiano termini come rettrice?
Come affrontare la carriera professionale
Possiamo trovare
donne dove è possibile l'affermazione individuale e dove la selezione avviene
per concorso. Questo non perché le donne sono migliori degli uomini ma per il
semplice fatto che sono più motivate. Il meccanismo si inceppa laddove
l'attribuzione di responsabilità dirigenziali passa attraverso criteri
discrezionali, o meccanismi poco trasparenti di cooptazione e regole di
selezione non fondati, almeno non prioritariamente, sulla competenza. È questo
il fenomeno del cosiddetto "soffitto di cristallo",
immagine che dà l'idea della difficoltà femminile di arrivare ai massimi
livelli di carriera nell'amministrazione come nelle professioni. Questo
fenomeno assume aspetti innegabili nella carriera universitaria e nella ricerca
scientifica, dove le donne costituiscono la maggioranza, ma è cosa rara nei
millenni incontrare una direttrice di dipartimento. […] L'assenza delle donne
nei gradi più alti della carriera lavorativa è un impoverimento per tutta la
società. […]
Per non concludere
Il diritto di voto
resterà una pura formalità fino a quando le strutture politiche non saranno
popolate da donne libere. […] Le donne non sono nate né per essere modeste, né
per essere sottomesse. È una vergogna elemosinare il diritto.