mercoledì 28 marzo 2012

THE FEMINIST GAMES



Di solito non leggo libri YA, ovvero libri dedicati a un pubblico di giovani adulti. Di The Hunger games, la trilogia di Suzanne Collins, avevo però sentito parlare così tanto e così bene che mi sono incuriosita e lo ho letto. Ora esce anche il film, e quindi ho pensato di parlarvene brevemente, in particolare rispetto all’immagine della donna che emerge da queste pagine.
Il romanzo racconta di un futuro distopico in cui gli Stati Uniti sono stati divisi in 12 distretti più la capitale. In questo mondo post-apocalittico, vengono organizzati annualmente gli Hunger game, ovvero un reality show che intrattiene il pubblico di Capitol City in una lotta all’ultimo sangue tra ragazzi e ragazze tra i 12 e i 18 anni: i “tributi”, come vengono chiamati, vengono sorteggiati da ognuno dei Distretti per combattere uccidendosi l’un l’altro fino alla sopravvivenza di uno solo.
La protagonista è Katniss Everdeen, del Distretto 12, e all’inizio del romanzo, essendo sorteggiata sua sorella minore, decide coraggiosamente di offrirsi come volontaria per salvarle la vita. Da qui cominciano le sue avventure e il lettore le affronta con lei in un susseguirsi avvincente ed emozionante di eventi che coinvolge anche chi come me, ammettiamolo, nella categoria dei “giovani adulti” non è più da un pezzo.
Il romanzo ha spopolato tra lettori giovani e tra lettori adulti, tra maschi e femmine. Anzi, pare che lo straordinario successo che sta avendo la trasposizione cinematografica di questa trilogia stia proprio nel fatto che appassiona in egual misura un pubblico maschile e un pubblico femminile.
Io personalmente non potrei esserne più contenta, perché dalle pagine del libro (al momento il film non lo ho ancora visto, anche se intendo guardarlo) emerge un’immagine femminile forte, coraggiosa, altruista, simpatica, positiva, capace di slanci di amicizia sia al maschile che al femminile, competente, brillante, intelligente…
Insomma, pensate a Bella della saga Twilight e qui troverete l’esatto opposto di quell’orribile archetipo di donna passiva, imbranata, incapace e indifesa cui interessano solo i ragazzi. Katniss si prende cura della sua famiglia, è capace di sentimenti anche romantici, ma la sua vita non comincia e finisce nello sguardo di un ragazzo: sa badare a se stessa con determinazione senza essere machista, è volitiva, generosa senza diventare una vittima, capace senza essere supponente, una vera eroina contemporanea in cui le ragazze possono rispecchiarsi e in cui anche i ragazzi riescono a immedesimarsi.
Insomma, adolescenti di tutto il mondo si sono riconosciuti nelle battaglie quotidiane dei protagonisti, in questa arena in cui a ogni passo tutto può andare perduto, in cui il gioco sociale, che è di fronte agli occhi e ai commenti di tutti, può essere perso definitivamente, o ci si può perdere definitivamente per uscirne vincitori. Katniss in questo è un modello di cui tutte le donne possono andare fiere, perché propone una possibilità di identificazione realmente alternativo che potrebbe segnare una generazione. Io, francamente, lo spero. 

giovedì 22 marzo 2012

PETA: SFRUTTIAMO LE DONNE, NON GLI ANIMALI


La People for the Ethical Treatment of Animals (PETA) si occupa della nobile causa di promuovere il trattamento etico degli animali. Come non essere d’accordo?

Possibilissimo: recentemente la PETA ha dato il via a una nuova iniziativa, chiamata PETA.XXX. Come si può cogliere facilmente dal nome, si tratta di un sito porno che conterrà foto di celebrità nude ma anche di abuso di animali. A parte il fatto che associare la crudeltà sugli animali all’eccitazione erotica non mi sembra una gran bella idea, concordo con Ashley-Michelle Papon che ha giustamente dichiarato: il messaggio è sempre lo stesso - “Sfrutta e strumentalizza le donne, non gli animali”.

Non che sia una strategia nuova (basti ricordare la campagna Salviamo le balene o quelle che puntano sull’insicurezza che le donne nutrono nei confronti del proprio corpo). Eppure è lo stesso sito di PETA che sottolinea in un lungo articolo la correlazione tra le condotte di abuso sugli animali e di violenza sugli umani, per cui uno si aspetta che si rendano conto che sebbene sfruttare il corpo delle donne funzioni ahimè sempre per attirare l’attenzione, promuovere la misoginia non può essere la strada giusta. Citando ancora una volta Ashley-Michelle Papon, “Perché ci sia un reale cambiamento, è necessario che PETA smetta di oggettivare le donne trattandole come se fossero, letteralmente, dei pezzi di carne”.

giovedì 15 marzo 2012

QUASI PERFETTA


Qualche tempo fa, sul sito Adios Barbie ho trovato un articolo molto interessante di Melanie Klein. Lo riporto qui nella sua interezza, tradotto in italiano.
“ “Senti, ti ho sposato in un certo modo! Mi piacciono le donne che hanno un certo aspetto! È mio diritto preferire donne con un certo aspetto e non dovrei essere costretto a passare il resto della mia vita infelice”, ha esclamato Brad.
Così il marito della mia amica Jasmine ha reagito al suo rifiuto categorico di “farsene un altro paio” meno di due mesi dopo che era stata costretta a rimuovere le protesi che le erano quasi costate la vita. Jasmine ha dovuto affrontare per quasi un decennio numerose complicazioni nel suo stato di salute, complicazioni che i medici occidentali le dicevano non avere niente a che fare con le protesi al silicone.
Brad sembrava diverso dal suo fidanzato precedente, ed è per questo che Jasmine lo aveva sposato. Sembrava aperto, gentile, indulgente, delicato, accudente capace di accettazione. Quando le erano spuntati dei capelli grigi nella seconda metà dei suoi 20 anni, l’aveva spinta a non strapparli dicendole che amava i suoi “capelli della saggezza”.
Tim, il suo ragazzo di dieci anni prima, le aveva detto che era perfetta, “la ragazza dei suoi sogni”. Beh, quasi. Era la ragazza dei suoi sogni tranne che per il suo seno, che era troppo piccolo, e sarebbe stata perfetta se lo avesse avuto più grande. Anzi, l’avrebbe sposata se avesse preso in considerazione un intervento chirurgico per ingrandirlo. Nel giro di una settimana Jasmine, che nel 1990 aveva 18 anni, si è trovata sotto i ferri. Quando si è svegliata, le protesi statiche e senza vita di silicone nel suo petto erano molto più grandi di quanto avesse concordato nella consultazione iniziale. La consultazione che era avvenuta a pochi giorni di distanza dal suo consenso ancora solo mezzo convinto a prenderle in considerazione.
Complessivamente Jasmine era piccolina e naturalmente bella, secondo gli standard di oggi. Ora incarnava la ragazza dei poster sul retro dei camion. La versione di Tim della moglie perfetta. Come promesso, si sono fidanzati presto e Tim, che aveva 25 anni ed era il “figo” della città, la mostrava in giro come un trofeo – finché Jasmine ha avuto il coraggio di lasciarlo per i suoi abusi emotivi e il suo iper-controllo.
Ho incontrato Jasmine qualche anno dopo l’intervento plastico e siamo diventate amiche strette. Nel corso di numerose conversazioni intime si è confidata con me a proposito delle sue protesi al seno e di Tim, dei suoi problemi con l’immagine che aveva del proprio corpo e della sua mancanza di fiducia negli uomini. Queste conversazioni erano profondamente tristi e contrassegnate da un’intensa insicurezza e rammarico. Con i suoi occhi abbaglianti e il suo “corpo da porno star”, Jasmine attirava un sacco l’attenzione maschile, e cercava di deviarla o di evitarla vestendosi in modi che mettessero meno in evidenza la sua figura.
Ero una delle poche persone che sapeva quanto la mettesse a disagio l’attenzione che riceveva e quanto desiderasse riavere il suo corpo. Poco dopo aver lasciato Tim, ha cominciato a informarsi sulla rimozione delle protesi. I medici uomini le dicevano sempre che ne sarebbe uscita “sfigurata” e che non c’era nessun valido motivo per farlo. Questo finché le protesi non hanno cominciato a rompersi dentro di lei e a distruggere il suo sistema immunitario.
Quando ha cominciato a notare la fragilità dei suoi suoi capelli e il suo malessere complessivo, Jasmine era diventata una femminista brillante e tagliente con una propensione per la medicina e per modalità di guarigione olistiche alternative. Otto anni dopo il primo intervento, quattro anni dopo aver trovato la sua voce femminista, e due anni dopo aver trovato massicce quantità di capelli sui suoi vestiti e sui mobili, Jasmine è caduta dalla mountain bike e il petto le si è schiacciato sul manubrio.
Ha sentito uno strappo udibile e ha capito subito che si era rotta una delle protesi. È andata dal dottore che però ha minimizzato, così come hanno fatto i medici successivi. La squalificavano come irrazionale, iper-emotiva e matta. L’anno seguente ha sposato Brad e pochi mesi dopo i sintomi di questa “matta” sono aumentati.
Le ricerche hanno mostrato che le protesi al silicone di 10-15 anni si rompono dal 50% al 60% delle volte; uno studio mostra un fallimento del 6% all’anno per i primi 5 anni, del 50% a dieci anni e del 70% a 17 anni. In uno studio, nel 21% delle donne a seguito della rottura di una protesi il gel al silicone è fuoriuscito dalle capsule fibrose del tessuto delle cicatrici che circondano l’impianto. Questi studi hanno utilizzato la risonanza magnetica, che è sensibile dal 74% al 94% e specifico dall’85% al 98% nell’individuazione delle rotture delle protesi.
Nel corso dell’anno successivo:
  • I suoi capelli sono diventati così fragili che le cadevano a ciuffi, lasciando aree calve sullo scalpo;
  • Il suo viso è diventato perennemente gonfio;
  • Ha sviluppato una larga acne cistica nei linfonodi di ascelle, collo, mandibola e ai lati delle guance;
  • Il tratto digestivo si è paralizzato e ha smesso di funzionare del tutto. Non le è stato possibile defecare per un mese. Ci sono volute tre settimane di trattamenti colonici quotidiani per rimuovere la materia fecale che si era compattata;
  • Ha iniziato a sviluppare cisti, che sono diventate tumori intorno ai capezzoli e sul seno.
La maggior parte dei medici occidentali hanno ritenuto che questi sintomi fossero separati, e hanno liquidavano le sue preoccupazioni ancora una volta come deliri paranoici di una prima donna eccessivamente sensibile. Jasmine si è dovuta diagnosticare da sola attraverso la sua ricerca sugli protesi di silicone ricoperte di poliuretano della Dow Corning e curarsi (tenersi in vita) come poteva cercando metodi alternativi di cura. La sua ricerca ha confermato la fonte del decadimento della sua salute a mano a mano che sempre più donne hanno cominciato a parlare pubblicamente di questo problema e i prodotti della Dow Corning sono stati sottoposti ad accertamenti.
Nonostante la lista di problemi di salute di Jasmine si allungasse, molti dottori la avevano incoraggiata a tenersi le protesi proprio perché la Dow Corning stava subendo pressioni affinché togliesse le proprie protesi dal mercato. Il loro ragionamento? Le protesi al silicone sono migliori al tatto delle protesi saline, per cui se avesse voluto togliere quelle al silicone e passere a quelle saline si sarebbe vista e sentita meno desiderabile.
Alla fine ha trovato un medico che non solo ha acconsentito a rimuovere le protesi, ma le ha detto che se non lo avesse fatto non avrebbe visto il suo prossimo compleanno. Dopo lunghe discussioni con suo marito, con sua madre e con me, ha fissato l’appuntamento per rimuoverle. Mi sono presa una settimana di ferie, ho preso in prestito dei soldi da un amico e ho volato per 5 ore per starle vicino.
Poco dopo la rimozione delle protesi, Jasmine ha recuperato la sua chiarezza mentale, ha cominciato a sentirsi meno a pezzi, il suo corpo si è fatto più forte, e ha sentito un complessivo sollievo. Ed è allora che Brad ha fatto cadere la bomba.
“Quando pensi che sarai pronta a rimpiazzarle con delle protesi saline?”
A questo punto, le protesi al silicone della Dow Corning erano state tolte dal mercato (per essere poi re-introdotte nel 2006, una decisione che è stata valutata “sensata” appena pochi giorni fa). Jasmine ha chiarito che non aveva intenzione di rimpiazzarle. Ha ricordato a Brad che la aveva appoggiata nella sua decisione di rimuoverle e che aveva giurato di amarla in salute e malattia. È allora che ha risposto citando il suo diritto di stare con una donna dal seno grande, come quella che aveva sposato all’inizio. Il senso di rifiuto e la paura di Jasmine si sono confermati quando hanno divorziato un anno dopo, a seguito del tradimento di Brad con una procace hostess al lavoro. Era mortificata e depressa.
Non solo il suo matrimonio era fallito, ha cominciato a notare una diminuzione nel livello di attenzione che le prestavano gli uomini – attenzione che si allontanava da lei in favore di donne più giovani con un seno più procace. Nonostante la pressione iniziale a farsi operare, il suo rimpianto di averlo fatto e il rischio che ha comportato alla sua vita, mi ha confidato che in diverse occasioni ha preso in considerazione l’idea di rifarsi operare.
La storia di Jasmine rivela molte cose. Per prima cosa, la più importante, dimostra l’incredibile pressione a cui ragazze e donne sono sottoposte a incarnare un ideale di bellezza irrealistico e pericoloso. Mette anche in luce i rischi alla salute mentale ed emozionale e i rischi incredibili e dolorosi che le donne sono disposte ad affrontare per incarnare quell’ideale di perfezione. Perché alla fine, come dice Bell Hooks in Communion: The Female Search for Love, essere belle vuol dire essere amate. Bambine e donne capiscono fin dalla più tenera età che sono giudicate primariamente dal loro aspetto e che se possiamo raggiungere questo ideale oppressivo di bellezza, saremo gratificate. Con le parole di Hooks, le bambine e le donne aspirano “a rifarsi, a diventare degne d’amore”.
Come sempre più donne, Jasmine è diventata consapevole delle conseguenze dannose causate dal perseguimento di un singolo ideale sociale di bellezza. La sua consapevolezza è stata acuita dalla sua esperienza personale così come dalla sua consapevolezza femminista, informata dai continui sforzi del movimento femminista. Ma, come puntualizza Hooks, la consapevolezza non è sufficiente.
Per risolvere il problema dell’odio di noi stesse, dobbiamo criticare la mentalità sessista, opporre una resistenza militante, e allo stesso tempo creare nuovi modi di vedere noi stesse.

mercoledì 7 marzo 2012

QUANTE STRADE DELLA VOSTRA CITTÀ SONO INTITOLATE A DONNE?



Qualche giorno fa ho letto un articolo di Corinna De Cesare da Il corriere della sera nel quale si segnalava una sorta di sfida lanciata nella rete da un’insegnate di geografia, Maria Pia Ercolini. La sfida chiedeva: “Quante strade della vostra città sono intitolate a donne?”. Provate a pensare alla vostra città: quante ve ne vengono in mente?

…Difficile, vero?

Ebbene, la dr.ssa Ercolini stava lavorando per realizzare alcune guide turistiche e si è resa conto che, sebbene fosse di Roma (e quindi non proprio un paesino in periferia), le vie intitolate a donne ammontavano a meno del 5%: «E se escludiamo i nomi che appartengono alla sfera religiosa, la percentuale scende ancora», specifica.

La professoressa, che insegna all’Istituto Giulio Verne, non si è fermata all’amara constatazione però: ha aperto un gruppo su Facebook chiamato Toponomastica femminile per estendere l’indagine a tutto il territorio nazionale. Al momento conta 1720 membri ed esiterà in un  convegno che si terrà in autunno in collaborazione con le università romane.

Che cosa ci rivela questa iniziativa? Che, ad esempio, a Trieste su 1475 strade, quelle intitolate alle donne, escluse sante, madonne, località e famiglie, sono 4. A Bari il rapporto è: 873 strade intitolate a uomini – 57 a donne. A Torino solo 50 su 2250, vie, corsi, piazze, giardini e parchi compresi. «Sono tutti dati ancora da verificare», spiega, «ma in genere la media nazionale che abbiamo raccolto è sotto il 5%». Una vera e propria «misoginia ambientale», insomma.

Sulla scorta di queste osservazioni è nata la campagna “3 donne 3 strade” che parte oggi 8 marzo, giorno della festa della donna. Funziona così: oggi siamo tutti invitati, uomini e donne, a mandare una richiesta alle amministrazioni comunali per dedicare le prossime tre titolazioni di strade a importanti figure di donne locali, nazionali e di livello internazionale.

Secondo me è un’iniziativa lodevole e importante, perché la città è anche nostra, e il nostro contributo va riconosciuto: facciamoci strada!

giovedì 1 marzo 2012

LA VIOLENZA DI GENERE IN UNIVERSITÀ


Qualche tempo fa ho letto su Vita di donna gli esiti della ricerca europea condotta da Roberta Bisi, docente di Sociologia giuridica a Scienze Politiche, insieme alla docente di criminologia Raffaella Setti dal titolo "Gender-based violence, stalking and fear of crime" (“Violenza di genere, stalking e paura del crimine”). Il Centro interdipartimentale di ricerca sulla vittimologia e sulla sicurezza (Cirvis) dell'Università di Bologna ha coinvolto le studentesse dell’ateneo chiedendo loro di compilare un questionario in forma anonima su questo tema.

Ebbene, su un totale di 3.531 ragazze, 1.937 hanno risposto affermativamente alla domanda: "Hai subito almeno un episodio di stalking, molestia o violenza sessuale nel corso della tua vita universitaria?". Millenovecentotrentasette (164 violenze sessuali, 662 stalking). Ovvero il 78%. Questo significa che praticamente 8 studentesse su 10 hanno subito nel corso del proprio percorso di studi almeno un episodio del genere.
In stragrande maggioranza si tratta di persone che le ragazze già conoscono, in prevalenza di ex partner che si rifiutano di accettare una separazione:



La docente di criminologia Raffaella Setti ha dichiarato in un’intervista che le studentesse ritengono che il numero di casi sia così elevato perché viviamo in un clima complessivo che discrimina le donne e le ritiene inferiori, non degne di rispetto. A questo si aggiunge il bassissimo livello di diffusione delle informazioni relative alle risorse che le ragazze possono attivare a propria tutela e confermano quanto sia difficile confessare a qualcuno la violenza sessuale subita.