martedì 26 aprile 2011

CHI DEPONE LE UOVA DI PASQUA


Ieri, giorno di Pasquetta, sono andata a un pic-nic con alcune care amiche che frequento con grande affetto da moltissimi anni: non moltissime, giusto un manipolo affiatato che si ritrova insieme meno spesso di quanto vorrebbe, complici gli impegni familiari, lavorativi, sociali. Abbiamo mangiato un po’ di tutto, sedute comodamente su un plaid in un magnifico parco, in una giornata che sembrava fatta apposta per godersela sotto l’ombra degli alberi verdissimi, splendidi.
A un certo punto, il marito di una di noi si è allontanato per qualche minuto per portare la figlia a fare un riposino a casa dei suoceri. Al suo ritorno, nel vederci piacevolmente coinvolte nelle chiacchiere e negli aggiornamenti reciproci, si è accostato facendo il verso della gallina, che ai suoi occhi rappresentava noi e il nostro chiacchiericcio.
Non so mai come rispondere (e se rispondere) a questo tipo di insulti, che ti aggrediscono senza preavviso, mentre sei tra amici, e non fai nulla di particolare se non goderti la reciproca compagnia. È in fondo un attacco a te come donna in quanto tale, alla tua essenza, più che a quello che stai facendo (una chiacchiera tra amiche molto neutra, senza gossip, senza alcun tipo di malizia – e specificarlo forse è già un po’ sessista da parte mia). Se gli uomini parlassero più delle donne, si ricorderebbe costantemente che in fondo la parola è la facoltà che più marcatamente ci distingue dagli altri animali, e che più accompagna le forme di pensiero e di socializzazione più alte e complesse; ma è un’attività considerata prevalentemente femminile, e quindi valutata come vacua, fastidiosa, stupida, biasimevole.
Sono ferite per me particolarmente dolorose perché trasudano di pregiudizi impliciti, striscianti, insidiosi (e la mia preoccupazione va fortemente alla piccola figlia, cui già viene rimproverato molto del suo semplice essere bimba, come se fosse un difetto in sé). Perché insultare così tua moglie e le persone che le vogliono bene? Perché utilizzare il piacere della reciproca compagnia per umiliarci e considerarci alla stregua di galline? Alzi la mano chi tra le donne non ha mai fatto un’esperienza uguale o simile a questa, più e più volte.
Che fare? Lasciar correre o rispondere?

giovedì 21 aprile 2011

LA MARCIA DELLE PUTTANE



Il 24 gennaio scorso, l’agente di polizia di Toronto Michael Sanguinetti ha fatto un intervento di prevenzione allo stupro presso la Osgoode Hall Law School che si è concluso con un consiglio: “Evitate di vestirvi come puttane”. Sebbene si sia poi scusato pubblicamente, questa ennesima dimostrazione di biasimo della vittima ha dato il via a una manifestazione che, partita dal Canada, si è poi estesa al resto del mondo. Si tratta di SlutWalks, la Marcia delle Puttane. Lo traduco io qui in questo modo, perché in realtà l’Italia non si è unita alle maggiori città degli Stati Uniti, all’Australia, all’Olanda, all’Asia, alla Nuova Zelanda e all’Inghilterra. E non perché non ce ne sia bisogno.

“Adesso basta”, ha dichiarato Heather Jarvis, la fondatrice della Marcia delle Puttane di Toronto: “Non si tratta di un singolo pregiudizio o di un singolo poliziotto che biasima la vittima, bisogna cambiare il sistema e rendere costruttiva la nostra rabbia e frustrazione” sia nelle aule della giustizia che nell’opinione pubblica, con l’obiettivo di smettere di focalizzarsi tanto sul comportamento della vittima, su come si veste, su come esprime la sua sessualità, e cominciare e prestare più attenzione a quello che fa lo stupratore.

E così, come riferisce l'Huffington Post, a fronte delle 200-300 persone che le fondatrici si aspettavano, se ne sono presentate 3.000 il 3 aprile a protestare di fronte alla stazione di polizia di Toronto: alcune indossavano jeans e maglietta, altre portavano lingerie e tacchi a spillo. “È inefficace e pericoloso passare l’idea che ci sia un certo modo di vestire che attrae, o anche che ti protegge dalla violenza sessuale”, ha specificato la Jarvis ricordando uno dei tanti cartelli della marcia: “Era il giorno di Natale. Avevo 14 anni e sono stata violentata sulle scale, mentre indossavo scarpe da neve e vestiti a strati. Me lo meritavo anch’io?”.

Per chi vuole seguire la Marcia via satellite, e magari trarne ispirazione per l’Italia, lo può fare tramite Facebook digitando satellite SlutWalks, che spiega il senso dell’iniziativa: “Perché il 60% delle aggressioni sessuali non viene denunciato. Perché ne è vittima una donna su sei. Perché ne è vittima un uomo su 33 . Perché alcuni studi mostrano che ne sono vittima più del 52% di persone LGBT. Perché può capitare e chiunque”.
Che cosa aspettiamo?

lunedì 18 aprile 2011

LE FILOSOFIE FEMMINISTE


Questo testo di Adriana Cavarero e Franco Restaino, "Le filosofie femministe", è un’antologia di alcune delle principali pagine del pensiero femminista italiano e internazionale. La raccolta è preceduta da un utile, per quanto estremamente conciso, excursus prima storico e poi tematico, attraverso le ondate del pensiero femminista e i suoi contenuti principali, organizzati anche per coerenza geografica. L’introduzione è piuttosto chiara e, sebbene l’autrice sia personalmente coinvolta e citata tra i contributi di spessore italiani, con la sua specifica prospettiva filosofica, è evidente che tenta di essere il più corretta possibile anche nel presentare riflessioni che non condivide.
Per quanto mi riguarda, sono stata particolarmente colpita dalle riflessioni che poggiano sul costrutto di identità e di linguaggio performativo (che “assume sostanzialmente il linguaggio come sistema di significazione che non rispecchia le cose significate bensì le produce” perché “Non ci sono appunto cose materiali la cui realtà sia preesistente e autonoma rispetto al linguaggio che le nomina, bensì c’è solo il discorso che, dicendole, le produce e, soprattutto, produce allo stesso tempo il loro posizionamento come materia esterna al linguaggio”, pagg. 107 e 108), con tutto ciò che questo comporta per il potere dirompente di analisi dello status quo così come della sua possibile destabilizzazione.
Quello di cui invece mi rammarico è lo spazio concesso alla prospettiva psicanalitica post-freudiana, che recupera quella che tanto femminismo aveva giustamente criticato come asfissia fallocentrica e giudaico-moralista, che avallava e promuoveva un patriarcato pseudo-scientifico. Di converso, pochissimo spazio è stato dato ai tanti fecondi contributi della psicologia interazionista contemporanea (anche italiana), molto più appropriata e interessante sia da un punto di vista teorico che epistemologico.
Al di là di questo, mi pare una buona, seppur rapida e parziale, panoramica su alcune voci essenziali delle filosofie femministe. Un buono spunto di partenza, se preso come tale.

giovedì 14 aprile 2011

SE LO SMALTO RENDE GAY


In questi giorni, il noto marchio di vestiti e accessori J. Crew ha pubblicato nell’ultimo catalogo della linea una sezione intitolata “Sabato con Jenna”, che rappresenta Jenna Lione, presidente e direttrice creativa della compagnia, con suo figlio mentre ridono amorevolmente insieme. È una bella fotografia, solare, affettuosa, ludica. Eppure, questa immagine ha infiammato l’opinione pubblica americana, in particolare della destra conservatrice, che ha evidenziato come nell’immagine il piccolo Beckett, un maschietto, portava ai piedi – scandalo! - uno smalto per le unghie di colore rosa shocking (il prodotto è ovviamente della J. Crew). E “shocking”, shoccante, è stato letteralmente, per chi ritiene che portare lo smalto (o anche solo vedere che qualcuno porta lo smalto) determini (forse per osmosi?) l’identità sessuale di una persona, o il suo orientamento sessuale, e per chi non sa distinguere tra le due, e pensa che una versione sia giusta e sana, e l’altra sia sbagliata e sporca. Scioccante per me, sinceramente, è stato prendere atto di questa polemica all’alba del ventunesimo secolo (forse perché portare i pantaloni non mi ha ancora reso lesbica). Sarà perché J.Crew è una delle marche preferite da Michelle Obama, ma subito la rete televisiva FOX si è lanciata in una crociata contro la “propaganda liberal di identità trans gender e filo-omosessuale”, mobilitando anche lo psichiatra Keith Ablow, che ha suggerito alla Lione (anzi, a Jenna, come la ha paternalisticamente chiamata) di cominciare e risparmiare per la terapia del figlio e di chi lo ha visto (sic).

Ora, urge un chiarimento proprio di base (forse il “dr." Ablow dovrebbe fare un ripassino). Possiamo definire l’”organizzazione psicosessuale” (o identità psicosessuale) come la dimensione soggettiva del proprio essere sessuati. Si tratta di un costrutto multidimensionale costituito, in una prospettiva biologica, psicologica e sociale, da quattro distinte componenti:
- sesso biologico: ovvero l’appartenenza biologica al sesso maschile o femminile determinata dai cromosomi sessuali;
- identità di genere: ovvero l’identificazione primaria della persona come maschio o femmina;
- ruolo di genere: ovvero l’adesione ai prototipi di genere, all’insieme di aspettative rispetto a come gli uomini e le donne si debbano comportare in una data cultura e in un dato periodo storico;
- orientamento sessuale: ovvero l’attrazione erotica ed affettiva per i membri del sesso opposto, dello stesso sesso o entrambi
Ora, rispetto al ruolo di genere - perché è di questa mutevole, complessa, e variegata dimensione che stiamo parlando qui, non di identità, non di orientamento - possedere in sé sia aspetti che in una certa cultura sono riconoscibili come prototipici di un genere che dell’altro è un dato positivo di buon adattamento relazionale che spesso contraddistingue le persone socialmente competenti, e non ha nulla a vedere con, né va confusa scorrettamente con l’organizzazione sessuale nella sua globalità.

E se il ragazzino diventasse poi gay? O transgender? Bene, buon per lui, spero che nella vita debba subire sempre meno le crociate di bigotti ottusi armati di acetone. In ogni caso, ciò non sarà determinato dallo smalto, o dal suo colore.
Una volta a Frank Zappa hanno detto: “Certo che lei, a giudicare dai capelli lunghi, sembra una donna”, al che lui ha risposto: “Certo che lei, a giudicare dalla gamba di legno, sembra un tavolino”.

Un'ultima, splendida traccia, prima di chiudere. Il pregnate e divertentissimo commento di tutta la redazione del Daily Show di Jon Stewart. Chapeau!

The Daily Show With Jon StewartMon - Thurs 11p / 10c
This Little Piggy - Gender Identity Situation
www.thedailyshow.com
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martedì 5 aprile 2011

MAMME UBER ALLES?

Stamattina stavo prendendo il caffè con un paio di colleghi, un uomo e una donna. La donna, single, si lamentava del fatto che i colleghi e le colleghe dell’altro ufficio in cui lavora caricavano regolarmente lei delle incombenze di lavoro fuori orario, “perché tanto tu non hai famiglia”. Sono sempre molto irritata da questo atteggiamento, perché implicitamente sta a indicare che i soli impegni degni di rispetto siano quelli di una moglie  e soprattutto di una madre. Da quando in qua non avere famiglia significa non avere una vita? Direi piuttosto che, ricadendo tutti gli impegni sulle spalle di un’unica persona, il sovraccarico di impegni sia anche maggiore per chi non può contare sull’appoggio dei familiari (il marito, ma anche il figlio, dopo una certa età). Invece, i figli diventano sempre più la scusa per non fare ciò che scoccia fare, perché a nessuno fa piacere fare ripetutamente straordinari, specie se non ricompensati adeguatamente. Non che questo malcostume si limiti all’area professionale. Non voglio andare a una cena? Mi spiace, mio figlio ha il raffreddore...
Sarebbe già abbastanza fastidioso così, ma spesso a questo si aggiunge lo sguardo di pietosa commiserazione che ti lanciano quando nel discorrere emerge che non hai figli. Il tentativo di spiegare che non si sono fatti figli per scelta viene immancabilmente interpretato come un caso di uva troppo acerba, oppure ci si sente dire cose del tipo: “Trovo che non ci sia niente di più triste di una donna che non vuole dei figli”. A me è stato detto, ed è stato detto da un’altra donna, che peraltro di solito appezzo.  
Ma non è finita qui. Per tornare a stamattina, il collega maschio mi guarda, sorride e nota che mi infastidisco sempre molto per questo genere di cose. Gli rispondo che la gente tende a offendersi quando la sua dignità viene offesa, al che mi dice: “Non dovresti prenderla, è solo un modo comune di dire, non vuole insultare specificatamente te”. Appunto. È un modo di dire, un modo di pensare, un modo di fare che insulta, offende, sminuisce tutte le donne che hanno scelto di non avere figli (o non ci sono riuscite). E, a ben vedere, offende anche le mamme, che oltre a essere tali sono anche molte altre cose, ma spesso finiscono per farsi scudo della propria prole per legittimare anche solo uno spazio auto-determinato, che qualunque estraneo non si senta in diritto di colonizzare al loro posto. Il terreno non dedicato alla maternità è terra di nessuno? No, è mio.

domenica 3 aprile 2011

FRANZEN-FEUDE


Quest’estate, l'autrice di best seller Jodi Picoult ha commentato le recensioni estremamente favorevoli ricevute da Jonathan Franzen, in particolare a proposito della copertina del Times, scrivendo su Twitter: “C’è qualcuno che ne è rimasto shoccato? Mi piacerebbe vedere il New York Times che si spertica in lodi per qualcuno che non siano ‘cocchi del mondo letterario’ bianchi e maschi”. A questa dichiarazione si sono aggregate Jennifer Weiner e la scrittrice di mystery Laura Lippman, che ha opportunamente ricordato che “sono le donne a dominare il mondo della fiction come lettrici”.
Ora, se è senz’altro desolantemente vero che l’intelligentsia tende a squalificare la letteratura prodotta da autrici donne (non è un caso che da George Eliot a J. K. Rowling molte autrici donne abbiano dovuto camuffare la propria identità di genere nel nome per poter avere successo) e riserva le lodi maggiori per le loro controparti maschili, gli autori/le autrici coinvolti/e da questa diatriba sono i meno adatti/le meno adatte per rappresentare sia il bias maschile che le legittime rivendicazioni femminili.
Ecco perché:
1.      Franzen è effettivamente un autore eccezionale, che si merita in toto le lodi ricevute e che ha saputo coniugare alta letteratura e grande successo di pubblico;
2.      La polemica ha finito per confondere le acque tra pregiudizio sessista e un certo elitismo letterario, che ignora in toto la letteratura di genere in favore di quella “alta”, letteraria appunto. Alcune autrici coinvolte nella discussione vengono regolarmente snobbate dalla critica, ma questo succede sulla base di un discernimento tra letteratura puramente commerciale e letteratura di alto profilo, a legittimo e opportuno sfavore, insomma, della letteratura di genere, non delle autrici di genere (femminile).
Questa confusione è grave per almeno due motivi: conferma il pregiudizio che associa la letteratura scritta da donne con la letteratura “non letteraria” e quindi di basso profilo e di minore qualità; impedisce di prendere sul serio un problema realmente esistente.
VIDA (Women in literary arts) ha pubblicato le statistiche del 2010 rispetto alle principali riviste letterarie. Ne riporto due tra le molte (per chi volesse vedere la statistica completa, si veda il link):

Un altro problema evidente per chi, come me, conosce e legge queste riviste tutte le settimane, è che l’evidente maschilismo di alcuni autori non viene affrontato come problema, e spesso non viene nemmeno visto come tale.
Lo stesso Franzen, che pure scrive figure femminili di tutto rispetto, nell’ulteriore polemica che lo ha coinvolto in merito all’inclusione di Le correzioni nel Club del Libro di Oprah, ha negato il proprio consenso temendo che l’associazione con la nota trasmissione televisiva lo avrebbe fatto identificare con un “libro per donne” e avrebbe perso quindi i rari e ben più ambiti lettori maschi. Di converso, quando gli è stato chiesto quali autori avesse letto e apprezzato di recente, ha citato Edith Wharton e Sarah Shun-lien Bynum, mostrando di non cadere, almeno in prima persona, nello stesso errore di chi lo recensisce.

venerdì 1 aprile 2011

THE FEMININE MYSTIQUE: un classico necessario


Ho deciso di leggere questo libro perché è considerato, a ragione, uno dei capisaldi della letteratura femminista. Di fatto,  ha contribuito fortemente alla definizione del “problema senza nome”, ovvero di ciò che l’autrice, Betty Friedan, definisce “la mistificazione del femminile”. Insieme a un nome, dà una legittimità alle rivendicazioni delle donne degli anni ’60, e denuncia il maschilismo implicito che ne sanciva un ruolo inferiore e infantilizzato, e al tempo stesso ne patologizzava le conseguenze emozionali e identitarie per la donna, proprio perché le negava la dignità di persona adulta e senziente, portatrice di aspirazioni e competenze.
La mia esperienza di lettura in realtà è stata ambivalente. Da una parte ho constatato con sollievo i progressi culturalmente fatti e seguito con interesse che riflessioni li hanno consentiti; dall’altra ho riconosciuto battaglie ancora in corso nella mia esperienza di vita quotidiana. Certo, la realtà americana e quella italiana sono, nel bene e nel mare, diverse e complesse, non direttamente e automaticamente sovrapponibili l’una all’altra sia in termini di sviluppo culturale diacronico, sia in termini di riferimenti valoriali del sistema culturale (una per tutte, l’influenza determinante della chiesa cattolica nella matrice collettiva italiana). Eppure, alcune dimensioni di rivendicazione ritornano tristemente anche oggi.

Di converso, il tempo trascorso ha saputo mettere in luce anche i limiti e le criticità di questo testo che in fondo ha rappresentato una specifica ondata di femminismo, che agli occhi di un lettore attuale, o per lo meno dei miei, appare senz’altro datato (la concezione semplicistica del lavoro femminile, la patologizzazione dell’omosessualità, etc.). Inevitabilmente, alcune osservazioni risentono insomma della cultura dominante da cui non sono riuscite ad affrancarsi. Un esempio particolarmente calzante riguarda la prospettiva freudiana che viene da un lato appropriatamente criticata (perché invidia del pene e non invidia dell’utero e della sua possibilità generativa?), e dall’altro comunque utilizzata come chiave di lettura di molta dell’esperienza psicologica affrontata. Il testo cioè non riconosce nel contributo freudiano la stessa confusione tra giudizi di fatto e giudizi di valore, lo stesso contrabbando di valutazioni morali e moralistiche del patriarcato maschilista, camuffate da valutazioni scientifiche, che legittimavano l’oppressione che il libro voleva denunciare. O meglio, le riconosce, ma poi non se ne sa sottrarre. Alla fine comunque mi rendo conto di quanto sia difficile, immersi in una certa cultura, vederla. Mi viene in mente la storia raccontata da David Foster Wallace nel suo Kenyon Commencement speech del 2005: due giovani pesciolini ne incrociano uno più anziano che li saluta e dice loro: “Ciao ragazzi! Com’è l’acqua?”, al che i due pesciolini si guardano perplessi e si chiedono “Che roba è l’acqua?”