giovedì 27 ottobre 2011

LE PIÙ RAPPRESENTATIVE DELLE ITALIANE


Recentemente, in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia, l’associazione “Donne e qualità della vita” ha stilato una classifica delle donne più rappresentative dell’Italia e del nostro stile di vita raccogliendo il parere di 400 donne dai 20 ai 60 anni.
Ecco i risultati, così come riferiti da Il sito delle donne:
“1. Manuela Arcuri: il prototipo della femminilità italiana, tutta curve e praticità… Mette la bellezza al primo posto e vorrebbe un corpo in grado di sedurre chiunque; provocante e sensuale, le donne che si identificano nella Arcuri sono probabilmente lo stereotipo delle ragazze che aspirano a fare la velina, hanno un corpo da mamma e trascurerebbero volentieri la carriera per la famiglia e una vita nello spettacolo o da mantenute [Non commento su questa descrizione, anche se mi fa abbastanza ribrezzo...].
2. Paola Cortellesi: intelligente, spiritosa, comica ma sofisticata… Capace di passare da ruoli di attrice divertenti a quelli più drammatici e impegnati, le fan della Cortellesi sono sempre auto-ironiche, pensano a se stesse come a persone carine, ma che mettono l’aspetto fisico dietro a un sano umorismo che dimostra tutta la loro intelligenza.
3. Luciana Littizzetto: un’altra comica un po’ più “attempata”, che non disdegna di commentare notizie di politica e società e dimostra sempre spirito critico. Non ha mai paura di dire come la pensa. Possiede una certa capacità di fronteggiare a viso aperto il maschio e lo critica aspramente, senza mai tralasciare un’auto-critica feroce. Sanguigna, a tratti volgare, pratica, difende i valori del femminismo e della femminilità senza per forza mostrare la carne.
4. Rita Levi Montalcini: andrebbe inserita fra il patrimonio nazionale. Infatti è una mente invidiata da tutto il mondo. Chi si identifica nella Montalcini crede che le donne possano essere veramente valorizzate dal loro cervello. Non solo, ma pensano che possano raggiungere traguardi impensabili mantenendo classe, eleganza, purezza di spirito e immergendosi completamente nello studio e nella carriera. Sono forse donne che credono nel cosmopolitismo e che sognano di fare in Italia ciò che, a livello di ricerca, è oggi possibile solo all’estero.
5. Margherita Hack: un’altra scienziata, ma più alla mano. Astrofisica, la testa tra le nuvole e i piedi saldi a terra, coloro che la ritengono un modello apprezzano soprattutto le sue conoscenze ma anche il suo spirito moderno. Apprezzata forse di più dalle donne di sinistra la Hack è il prototipo della studiosa casual che apprezza il mondo, lo ama, lo studia e lo difende. Divulgatrice instancabile mette molta passione in quello che fa e lo dimostra”.
Chissà che cosa sarebbe emerso se la stessa domanda fosse stata rivolta agli uomini. Sospetto un risultato un tantino diverso…
E voi? Chi avreste scelto?

giovedì 20 ottobre 2011

SQUADRA VINCENTE? CI VOGLIONO PIÙ DONNE



Quest’anno, la Harvard Business Review ha pubblicato una ricerca di Anita Woolley e Thomas Malone che sembra confermare che, come già sappiamo, c’è una bassa correlazione tra il livello di intelligenza collettiva di un gruppo e il quoziente intellettivo dei suoi singoli membri. Ma non è tutto. Ciò che colpisce è che questo studio, ormai replicato due volte con i medesimi risultati, evidenzia che se il gruppo comprende più donne, il livello di intelligenza collettivo aumenta.

La ricerca è così strutturata: i ricercatori hanno selezionato un campione di 699 soggetti con età variabile dai 18 ai 60 anni e li hanno sottoposti a test di intelligenza standard, dividendoli poi casualmente in gruppi diversi. Ciascun gruppo doveva completare dei compiti e risolvere un problema complesso. Coerentemente con le aspettative, i gruppi i cui membri avevano il QI più alto non hanno ottenuto un punteggio significativamente maggiore in termini di intelligenza collettiva. Sorprendentemente invece, i gruppi che avevano più donne, sì - e la performance è migliorata fino al 40%.

Poiché sono tendenzialmente scettica verso questo tipo di generalizzazioni, sia che riguardino gli uomini sia che riguardino le donne, ho investigato ulteriormente, approdando a un interessante approfondimento, pubblicato dalla stessa prestigiosa rivista.

 “Molti fattori che ci aspettavamo che fossero significativi in realtà non lo sono”, spiega Wolley. “Elementi come il livello di soddisfazione, di coesione o di motivazione del gruppo non sono correlati con il grado di intelligenza collettiva. E naturalmente non lo è nemmeno il QI individuale”.

Quali sono allora i fattori significativi? Un elevato numero di donne, pare. Ma non è così semplice.

In sostanza la ricerca mostra che:
-         i gruppi dovrebbero comprendere sia uomini che donne, perché diversamente (solo uomini o solo donne) la performance si appiattisce. Tuttavia, se ci sono più donne, la performance è migliore;
-         i gruppi che funzionano meglio sono quelli in cui ci si critica l’un l’altro costruttivamente, si mantiene una mentalità aperta e si media di più - e questo è raro quando singoli individui intelligenti finiscono per dominare la conversazione;
-         la differenza in buona sostanza la fa il grado di sensibilità sociale, ovvero la presenza nel gruppo di persone con un alto livello di sensibilità sociale, siano esse donne o uomini. Solo che le donne nella nostra cultura sono più allenate a questa dimensione (e infatti tendono a ottenere un punteggio maggiore sulle scale di sensibilità sociale rispetto agli uomini).

Porre la questione in questi termini può essere interessante perché prenderne atto potrebbe portare sia a una rivoluzione nelle organizzazioni aziendali – includere più donne nei gruppi di lavoro -, sia a una maggiore sollecitazione nell’educazione dei bambini alla sensibilità sociale, spesso nella nostra cultura erroneamente associata a una maggiore vulnerabilità.

sabato 15 ottobre 2011

DONNE CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE



Questo martedì è uscito per La Repubblica un articolo di Emanuela Stella in occasione della XIII Conferenza Internazionale sulla violenza di genere tenutasi in Campidoglio a Roma dall’11 al 13 ottobre. L’evento si tiene tenuto annualmente da Women Against Violence Europe (Wave), che coordina 4.000 centri antiviolenza in tutta Europa e che ha la sua sede centrale a Vienna, e quest’anno l'Italia è stata rappresentata dall'Associazione Nazionale D. i. Re, che coordina e gestisce 58 centri antiviolenza in Italia.

L’articolo mette in luce che “Se contro la violenza domestica il Consiglio d'Europa ha indicato la necessità di un luogo di rifugio ogni diecimila abitanti, solo 6 paesi su 44 (Norvegia, Olanda, Spagna, Slovenia, Lussemburgo, Malta) adempiono a questa richiesta. In Italia i posti disponibili sono 27mila, contro gli 80mila che sarebbero necessari, ma mancano i fondi per costituirne di nuovi”.

Un problema enorme, considerato che 2010 oltre 57 mila hanno chiesto aiuto. “Nel 2010 esistevano in tutto il mondo 2.774 centri antiviolenza coordinati dalla rete Wave: le donne che si sono rivolte a questi centri sono state 57.754, con 41.900 bambini, ma 11.460 di loro sono state respinte perché non c'era posto”, spiega l’articolo. “Rosa Logar, di WAVE Austria, racconta il caso tragico di una donna egiziana uccisa dal marito proprio il giorno in cui si era rivolta a un centro antiviolenza ed era stata rimandata a casa per carenza di posti. La violenza contro le donne è una piaga che attraversa la società e che prescinde dal livello sociale, culturale economico; le donne non sono considerate come soggetto autonomo di diritti, ma come prede, come figure a disposizione, prive di qualunque dignità”.

Condivido profondamente questa dichiarazione e secondo me questo significa che è indispensabile investire non solo in centri anti-violenza, ma anche in un’educazione globale al rispetto dei diritti delle donne e alla non-violenza. Di questo non c’è traccia alcuna nel nostro Paese, e sarebbe davvero ora che si iniziasse, magari con quei famosi 20 milioni di euro stanziati a suo tempo nell'ambito del piano nazionale antiviolenza e di cui si potrebbe fare una puntata speciale di “Chi l’ha visto?”…

Pubblico qui sotto la mappa con l’elenco dei centri antiviolenza presenti in Italia. Potete andarci di persona o fare una telefonata. Sono gratuiti e offrono aiuto e protezione alle donne e ai loro figli. Vi daranno una mano in caso di violenze, maltrattamenti, stalking e molestie. Rivolgendovi ad un centro vi permetterà anche di denunciare i vostri aggressori. Se trovate posto.



Visualizza I centri antiviolenza in Italia in una mappa di dimensioni maggiori

giovedì 13 ottobre 2011

SESSISMO: SI VA IN STAMPA




L’associazione “Donne Pensanti”, con sede a Bologna, dal 2009 si pone l’obiettivo di dare voce a chi non si riconosce “nel modello univoco e svilente di femminile proposto in Politica, dai Media e dai molti stereotipi che persistono in Italia”.

Il primo video da loro realizzato, curato da Valerie Donati, in qualità di editor e per la scelta dei materiali, e da Stefania Prestopino e Stefano Castelli al montaggio, è dedicato all’”uso del corpo femminile nella pubblicità a stampa e alla violenza suggerita dalle immagini contenute nelle campagne pubblicitarie di alcuni marchi”.

Avevo già visto molte di queste immagini, e probabilmente le avete viste anche voi, ma il video è ben fatto e pregnante, e penso che sia importante condividerlo con voi.

Su questo stesso tema poi, il gruppo di Facebook "La pubblicità sessista offende tutti", cui vi invito a unirvi, ha scritto una lettera all’Istituto dell'Autodisciplina Pubblicitaria che riporto qui di seguito:

"LETTERA COLLETTIVA ALLO IAP CON RICHIESTA DI INCONTRO PUBBLICO.

Spett. Iap,
dal febbraio scorso il nostro gruppo su Facebook La pubblicità sessista offende tutti, composto da donne e uomini, invia ogni mese al Vs. Istituto una mail per segnalare casi di pubblicità sessista. Questo tipo di pubblicità da una parte umilia la donna, riducendone la figura ai due stereotipi classici di oggetto sessuale e di casalinga, dall’altra svilisce l’uomo, che per fare da pendant, assume nel primo caso il ruolo di guardone e nel secondo di inetto.

Abbiamo riscontrato che nelle risposte da voi formulate si fa ricorso ai concetti di buon gusto, ironia e scherzo, che di fatto eludono la questione.
La nostra richiesta non è quella di censurare sporadicamente uno spot particolarmente offensivo, cosa che equivarrebbe ad accettare tutti gli altri sulla stessa falsariga, ma di ripensare il fenomeno nella sua interezza. Ciò va fatto sia a livello istituzionale che di enti privati come lo Iap, affinché tutti facciano la propria parte in vista di un obiettivo di civiltà, che preveda per l’Italia di:

1) rispettare le indicazioni dell’European Advertising Standards (EASA) di cui l’Italia fa parte.
2) allinearsi alle direttive delle risoluzioni comunitarie che nel 1997 e nel 2008 l’Italia ha sottoscritto e che invitano ad adottare “tutte le misure adeguate per eliminare gli stereotipi sulla divisione dei ruoli fra i due sessi e le pratiche derivanti da una concezione fondata sull’idea della superiorità o inferiorità di un sesso rispetto all’altro”.
3) aderire ai principi della CEDAW (Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne) sottoscritti nel 1980.

Scriviamo dunque oggi al Vs Istituto per proporre un incontro pubblico tra i vostri rappresentanti e altrettanti membri del nostro gruppo, presso la vostra sede o altro spazio da voi scelto, al fine di promuovere un dibattito e un confronto di posizioni costruttivo finalizzato al superamento delle nostre attuali posizioni di contrasto, incentrate su segnalazioni attraverso il modulo e vostre risposte.

Voi potreste rappresentare un importante tramite tra le imprese che aderiscono ai principi contenuti nel vostro Codice e le forze di opposizione alla pubblicità sessista, convinte che troppo stesso la posizione delle imprese sia più di facciata che di sostanza. Occorre giungere a una definizione e a una interpretazione comune e condivisa dei principi stessi.

Alleghiamo i link ad alcune delle iniziative di contrasto alla pubblicità sessista degli ultimi anni , delle quali sarete probabilmente a conoscenza, a testimonianza della crescita dell’esigenza di cambiamento, invitandovi a prendere atto che una nuova sensibilità sta emergendo sul fenomeno.
Il link al nostro gruppo è:
http://www.facebook.com/home.php?sk=group#!/home.php?sk=group_139046259478883&ap=1
Nel ringraziare per l’attenzione restiamo in attesa di un vostro gentile riscontro"

Se volete unire il vostro nome alla raccolta firme, ecco il link: http://www.facebook.com/home.php?sk=group_139046259478883

venerdì 7 ottobre 2011

QUANTO COSTA LA DISCRIMINAZIONE



Il Consiglio Nazionale dell’Europa e del lavoro martedì ha rilasciato uno scoraggiante quanto prevedibile comunicato stampa che riporta i risultati di una ricerca presentata al convegno della II Commissione Politiche del Lavoro e Sistemi Produttivi del Cnel. La ricerca, condotta su 10.000 lavoratori e lavoratrici italiane, è stata curata da Emiliano Rustichelli (Isfol), che esamina il caso italiano e propone policy per una effettiva parità di opportunità nel mercato del lavoro.
Ecco qui in dettaglio il comunicato stampa, in tutta la sua potenza depressogena:
A parità di qualifica e impiego, la differenza di retribuzione tra uomini e donne in Italia si attesta tra il 10 e il 18% ed è dovuta interamente a fenomeni di discriminazione”. Dalla ricerca “emerge che il differenziale retributivo di genere misurato sul salario orario dei soli lavoratori dipendenti è pari in media a 7,2 punti percentuali.
Il gap retributivo per le lavoratrici dipendenti risulta particolarmente elevato in alcuni ambiti: tra le donne meno scolarizzate raggiunge quasi il 20% e si mantiene oltre il 15% per chi possiede la licenza media. Ne soffrono sia le giovanissime (8,3% di penalizzazione rispetto ai coetanei) che le lavoratrici adulte (12,1%), mentre è più contenuto nella fascia di età compresa tra 30 e 39 anni (3,2%).
La forbice retributiva di genere appare meno pronunciata nel Sud mentre, in termini di caratteristiche dell’occupazione, si rileva una marcata differenza di genere nelle retribuzioni medie orarie degli operai specializzati (20,6%), degli impiegati (15,6%), dei legislatori, dirigenti ed imprenditori (13,4%).
Particolarmente elevata è anche la penalizzazione delle donne impiegate in professioni non qualificate rispetto ai loro omologhi di sesso maschile (17,5%). In termini settoriali, si registra una forte differenza nelle retribuzioni medie orarie di uomini e donne impiegati nei servizi finanziari e quelli alle imprese (rispettivamente 22,4% e 26,1%), nell’Istruzione e nella Sanità (21,6%), nella manifattura (18,4%).
Per il CNEL non è più possibile sprecare una forza lavoro qualificata e potenzialmente molto produttiva come quella femminile. I fattori che generano il gender pay gap sono diversi e spesso intercorrelati: fattori culturali e stereotipi di genere favoriscono la segregazione orizzontale e verticale e divaricano il gap di partecipazione al mercato del lavoro tra uomini e donne, la mancanza di politiche di conciliazione costringe le donne a uscire dal mercato del lavoro, ne impedisce la continuità lavorativa e limita le loro opportunità di carriera. Discriminazioni inaccettabili alla luce del fatto che le donne possiedono requisiti di formazione e di esperienza analoghi se non superiori a quelli degli uomini”.

FACCIAMO PACE


Quest’anno il premio Nobel per la pace è stato assegnato a tre donne, due liberiane e una yemenita, per "la loro battaglia non violenta per la sicurezza delle donne e per i diritti delle donne a partecipare alla costruzione della pace".
Vale la pena conoscere tutte e tre, per cui ve le presento brevemente.
-         La prima è la presidente liberiana Ellen Johnson Sirleaf, la prima donna ad essere stata eletta capo di Stato in Africa e la prima donna nera in assoluto nel mondo a vincere le elezioni presidenziali. La sua formazione è articolata e internazionale: diplomata al College of West Africa, nel 1964 ha ottenuto il Bachelor of Business Administration in contabilità al Madison Business College a Madison - Wisconsin, nel 1970 ha conseguito un diploma in economia presso l'Università del Colorado, e nel 1971 il Master of Public Administration presso l'Università Harvard. «Giuro che non tradirò le vostre speranze», ha detto quando è stata eletta il 16 gennaio 2006. In effetti viene considerata la dama di ferro di Monrovia per la sua competenza e determinazione nel promuovere il processo di pace liberiano. Ha collaborato alle campagne internazionali di Emma Bonino e si è fatta potente portavoce dei diritti umani dimostrando che è possibile coniugare un’attenzione esperta all’economia e una fermezza tenace per il rispetto dei diritti del suo popolo;
-         la seconda è la militante liberiana Leymah Gbowee, leader del movimento pacifista Women of Liberia Mass Action for Peace e di altre organizzazioni. La sua battaglia non violenta ha avuto inizio nel 2002, a partire da un movimento di donne che, vestite di bianco, cantavano e pregavano per la pace. Da allora il movimento, che ha adottato anche la famosa strategia dello «sciopero del sesso», è diventato così importante da essere incluso nei negoziati di pace in Ghana. L’impegno della Gbowee si è particolarmente focalizzato sul recupero degli ex bambini-soldato dell'esercito dell’ex presidente Charles Taylor, come possiamo vedere anche dal documentario 'Pray the devil back to hell' del 2008.
-         La terza è l’attivista per i diritti civili Tawakkul Karman, che è a capo del gruppo Women Journalists Without Chains” (“Giornaliste senza catene”) da lei creato nel 2005 «È un premio per me, ma soprattutto per tutte le donne dello Yemen», ha dichiarato alla televisione satellitare Al Arabiya, di Tawakkul Karman. Un riconoscimento particolarmente pregnante per la Karman, che lo scorso 23 gennaio era stata arrestata e accusata di promuovere manifestazioni anti-regime.
Dal 1901, data in cui si è consegnato il primo prestigioso premio Nobel per il mantenimento della pace, sono state solo 15 le donne che lo hanno ricevuto:
-         2011: Ellen Johnson Sirleaf et Leymah Gbowee (Liberia), e Tawakkol Karman (Yemen);
-         2004: Wangari Maathai (Kenya);
-         2003: Shirin Ebadi (Iran);
-         1997: Jody Williams (Usa);
-         1992: Rigoberta Menchu Tum (Guatemala);
-         1991: Aung San Suu Kyi (Birmania);
-         1982: Alva Myrdal (Svezia);
-         1979: Madre Teresa (Indoa);
-         1976: Mairead Corrigan e Betty Williams (Gran Bretagna);
-         1946: Emily Greene Balch (Usa);
-         1931: Jane Addams (Usa);
-         1905: Bertha von Suttner (Austria)

giovedì 6 ottobre 2011

C'È CHI DICE NO

Forse lo avrete notato: in Facebook non è prevista l’opzione per segnalare contenuti sessualmente violenti, nemmeno sotto la categoria “hate speech” (commenti ogruppi razzisti, omofobi, etc.). E così, come evidenziato da una recente campagna di sensibilizzazione, gruppi sessisti che promuovono la violenza sulle donne possono fiorire indisturbati. Si pensi al gruppo http://www.facebook.com/#!/pages/You-know-shes-playing-hard-to-get-when-your-chasing-her-down-an-alleyway/227051983998683?sk=wall – ovvero “Lo sai che sta solo facendo la preziosa quando la insegui in un vicolo”.
Sappiamo che in passato Facebook ha fatto in modo che venissero rimosse delle immagini che ritraevano donne che allattavano: possibile che siano considerate più offensive di gruppi che di fatto contribuiscono a creare un clima di minaccia all’integrità di tutte le donne?
Se anche voi volete dire a Facebook che gruppi di questo genere non possono essere considerati una forma legittima e accettabile di intrattenimento, fate sentire la vostra voce.
Petizione:
Noi sottoscritti crediamo fermamente che Facebook debba includere un’opzione che consenta di segnalare le pagine e i commenti che condonano la violenza sessuale e di rimuovere i gruppi che violano i Termini e le condizioni di uso degli utenti Facebook (Sezione 3: Sicurezza, punto 7), che specifica che non sono ammessi commenti di odio o minaccia.
Permettere a questi gruppi di adunarsi serve solo a normalizzare la cultura dello stupro e l’alta frequenza delle violenze sessuali nella nostra società.

domenica 2 ottobre 2011

RICK PERRY E LE DONNE


Uno dei principali candidati alla corsa per la Casa Bianca nelle elezioni del 2012 in casa repubblicana è l’ex governatore del Texas, Rick Perry. Perry è stato più volte descritto come una sorta di George W. Bush sotto steroidi. E pensare che all’epoca pensavo non si potesse fare peggio di Bush… Ingenuità di gioventù…

Vi spiego quello che mi preoccupa nel caso in cui Perry diventasse il quarantacinquesimo presidente USA. O meglio, mi soffermo qui su una piccola parte di ciò che mi inorridisce, quella che riguarda il futuro delle donne.

In qualità di governatore, Perry ha adottato una politica ferocemente antiabortista, arrivando ad appoggiare un emendamento della Costituzione che renda l’IVG illegale e approvando una legge che costringe le donne che intendono abortire a sottoporsi a un’ecografia nelle 72 - 24 ore che precedono l’intervento in modo che tutte, senza eccezioni, vedano il feto e ne ascoltino il battito cardiaco. Pazienza che questo comporti un maggiore trauma per le donne e non sia un efficace metodo di prevenzione dell'aborto. Questi sono dettagli per Perry.

Ehi, ma... Aspetta! Io lo conosco un buon modo efficace per diminuire il numero degli aborti! Una migliore consapevolezza e competenza sui metodi contraccettivi! Perry la appoggerà di sicuro, visto quanto tiene a questo tema, no?
No. Perry ha tagliato di due terzi i fondi per la pianificazione della procreazione e si è schierato contro qualunque forma di educazione sessuale che non sia l'esclusiva promozione dell’astinenza. Peccato che il Texas sia al terzo posto tra gli Stati americani con il più alto tasso di nascite, e che una ricerca del 2005 abbia evidenziato che gli adolescenti texani facevano più sesso dopo aver frequentato programmi esclusivamente centrati sull’astinenza. Ma, di nuovo, per Perry questi sono dettagli.

Naturalmente, una volta nati, i bambini non sono più affar suo pare, visto che il Texas ha il primato di essere lo Stato americano con più bambini privi di assicurazione sulla salute, con più adulti senza un diploma e con lavori con un salario minimo.

Perché ci interessa? Perché l’Italia guarda all’America da sempre, e la nostra cultura è altamente esposta alla loro. Una virata nella sensibilità ai diritti delle donne contribuisce a spostare l’asse del dibattito mettendo a repentaglio le conquiste faticose e fondamentali che abbiamo fatto finora.