lunedì 30 maggio 2011

LA FACCENDA FEMMINILE


Il libro della sociologa e saggista americana Laura KipnisThe female thing” (“La faccenda femminile”) vuole disegnare una mappa personale e provvisoria di quelle che l'autrice considera le quattro regioni primarie della psiche femminile: invidia, sesso, sporco e vulnerabilità. È uno sguardo critico, provocatorio, spesso irriverente e sempre interessante sull’essere donna.

Parte da una riflessione sul rapporto tra femminilità e l’industria dell’insicurezza, affronta le questioni della prevalenza di un modello adro-centrico di sessualità, la relazione tra piacere sessuale e coerenza narrativa, il rapporto tra fantascienza, pornografia e fantasie di trasformazione dell’altro sesso, la funzione identitaria della maternità, il binomio sporcizia – sessualità, lo spettro dello stupro nell’esperienza femminile e molte altre cose. Offre una prospettiva insolita, che mi ha lasciato molte riflessioni, spesso inaspettate e lontane dalla corrente di pensiero comune, mai auto-indulgenti, mai gratuite o scontate.
L’ultima sezione, dedicata alla vulnerabilità e in particolare alla minaccia reale e percepita della violenza sessuale sulle donne e al ruolo che questa minaccia gioca nell’esperienza femminile, è probabilmente la più provocatoria e interessante, ed è dire molto, considerato che sull’argomento si vede/legge/sente moltissimo.

Un libro da evitare se si cerca solo un elenco di recriminazioni autocompiaciute e vittimistiche. Un libro da leggere se si vuole riflettere sulla “faccenda femminile” seriamente e col sorriso sulle labbra.

martedì 24 maggio 2011

ARRESTATA MARYAM BAHRMAN, ATTIVISTA PER I DIRITTI DELLE DONNE IRANIANE

L’Ufficio stampa AIDOS ha pubblicato la seguente notizia:
Attiviste per i diritti delle donne di nuovo sotto attacco in Iran. L’11 maggio la polizia ha arrestato Maryam Bahrman, attivista iraniana per i diritti delle donne e i diritti umani, tra le promotrici della campagna per “Un milione di firme per l’uguaglianza” che chiede la revisione delle leggi che discriminano le donne nella Repubblica Islamica d’Iran.
Su Maryam Bahrman pende l’accusa di “azione contro la sicurezza nazionale”, motivata dalla sua partecipazione, nel marzo di quest’anno, alla CSW,  Commission on the Status of Women (Commissione sulla condizione delle donne) delle Nazioni Unite, dove è stata ospite di due seminari organizzati dall’ONG italiana AIDOS, Associazione italiana donne per lo sviluppo, nell’ambito delle paralles sessione dedicate al dialogo con la società civile, oltre che dalla sua attività nell’ambito della campagna “One Million Signatures Campaign for Equality” a Shiraz, che Mariam Bahrman aveva promosso nel 2006, quando era Segretario general dell’Organizzazione delle donne farsi (Sazman e Zanan Pars, poi costretta a chiudere nel 2007).
Nelle sue richieste, la campagna “One Million Signatures Campaign for Equality” fa appello ai trattati e convenzioni sui diritti umani ratificati dall’Iran, in particolare il Patto sui diritti civili e politici, che prevede che non possano esserci disparità giuridica tra uomini e donne (art. 3), e garantisce inoltre la “libertà di espressione; tale diritto comprende la libertà di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee di ogni genere, senza riguardo a frontiere, oralmente, per iscritto, attraverso la stampa, in forma artistica o attraverso qualsiasi altro mezzo di sua scelta” (art. 19).
Secondo fonti attendibili, la polizia ha fatto irruzione nella sua casa di Shiraz, provincia di Fars, Iran, alle 7,30 dell’11 maggio con un mandato di arresto e di perquisizione. Le forze di sicurezza hanno sequestrato effetti personali, incluso il cellulare, libri e computer portatile. Attualmente è detenuta nel Centro di detenzione n° 100 di Shiraz, non ha ancora potuto incontrare la sua famiglia né nominare un avvocato di sua fiducia.
AIDOS ha già sottoposto il caso al Ministro degli Affari esteri Franco Frattini, alla Ministra per le Pari Opportunità Mara Carfagna, a Senatori e Parlamentari di maggioranza e opposizione. Ieri, 19 maggio, il Senatore Lucio Malan (PDL) ha sottoposto il caso al Sottosegretario agli Affari Esteri Alfredo Mantica nel corso di una audizione sulla situazione dei diritti umani in Iran in corso al Senato.
 “Dopo la mobilitazione per salvare dalla condanna a morte Sakineh, ancora più importante diventa levare le nostre voci a sostegno di Maryam Bahrman, una donna la cui unica colpa è quella di lottare per migliorare la condizione delle donne nel suo paese”, afferma Daniela Colombo, presidente di AIDOS.
Che cosa fare
Di seguito trovate il testo (in italiano e in inglese) di una lettera da inviare per posta (oltre che per e-mail all’unico indirizzo indicato), copiando e incollando il testo sulla vostra carta intestata o su un foglio bianco.
LA LETTERA DA INVIARE:
 Gentile Ambasciatore,
noi, cittadine e cittadini italiani, rappresentanti di organizzazioni della società civile, facciamo appello alla sua autorità per chiedere il rilascio immediato di Mariam Bahrman, attivista per i diritti delle donne e promotrice della “One Million Signatures Campaign for Equality”, arrestata con l’accusa di “attentato alla sicurezza nazionale” per aver partecipati ai parallel events della società civile in occasione della  CSW, Commission on the Status of Women (CSW) delle Nazioni Unite, di cui la Repubblica Islamica d’Iran è membro.
Maryam Bahrman è stata arrestata l’11 maggio scorso nella sua casa di Shiraz, che le forze di sicurezza hanno perquisito, sequestrando suoi effetti personali, compresi libri, telefono cellulare e computer portatile. Maryam Bahrman è attualmente rinchiusa nel Centro detenzione n. 100 di Shiraz e le sono stati negati contatti con la sua famiglia come pure la difesa di un avvocato di sua scelta.
Facciamo notare come le richieste delle “One Million Signatures Campaign for Equality”, di cui Maryam Bahrman è una delle promotrici a Shiraz, siano sempre state coerenti con le convenzioni sui diritti umani ratificate dalla Repubblica Islamica d’Iran, in particolare la Convenzione sui diritti civili e politici che garantisce espressamente, al suo art. 3, l'uguaglianza di diritti tra uomini e donne e dunque impegna la Repubblica Islamica d’Iran a modificare le disposizioni che non garantiscono l'attuazione di tale articolo.
Facciamo appello al ruolo ricoperto dalla Repubblica Islamica d’Iran in seno alla medesima CSW, per sottolineare come il dialogo con i/le rappresentanti della società civile sia parte integrante del funzionamento delle  Nazioni Unite da lunghissimo tempo. È dunque inaccettabile che il governo della Repubblica Islamica d’Iran non rispetti tale meccanismo e persegua ingiustamente le attiviste iraniane che partecipano alla CSW per promuovere riforme indispensabili per il benessere complessivo della popolazione iraniana, a cominciare dalle donne.
Per questo le chiediamo di intervenire affinché Maryam Bahrman e tutte le altre rappresentanti della “One Million Signatures Campaign for Equality” siano rilasciate, e di avviare con loro un dialogo per costruire insieme una società rispettosa dei principi dei diritti umani che la Repubblica Islamica d’Iran ha sottoscritto ratificando la Convenzione sui diritti civili e politici e la Convenzione sui diritti economici, sociali e culturali.
Nel frattempo le chiediamo di intervenire affinché sia permesso a Maryam Bahrman di incontrare la sua famiglia, di nominare un avvocato di sua fiducia e di ricevere le eventuali cure mediche di cui dovesse aver bisogno.
La ringraziamo per il suo interessamento e cogliamo l’occasione per porgerle distinti saluti.
FIRMA FIRMA

VERSIONE INGLESE (cancellare questa dicitura!)
INSERIRE INTESTAZIONE APPROPRIATA E STAMPARE SU FOGLIO SINGOLO
We, the undersigned Italian citizen, representatives of civil society organisations, call upon Your Authority to request the immediate release of Ms. Maryam Bahrman, women’s and human rights activist, promoter of the “One Million Signatures Campaign for Equality”, arrested for her participation in the parallel events for civil society during 55th session of the CSW, the United Nations Commission on the Status of Women.
Maryam Bahrman was arrested on the 11th of May 2011 at her house in Shiraz. Her personal belongings, including her mobile phone, books and her personal computer, were taken by the security forces. She is actually detained at the Detention Centre N° 100 in Shiraz and is denied any contact with her family as well as the assistance of a lawyer of her choice.
We underline that the requests of the “One Million Signatures Campaign for Equality” are in line with the principles stated in the human rights conventions ratified by the Islamic Republic of Iran, in particular with article 3. of the International Covenant on Civil and Political Rights, that expressly request equal rights for women and men and therefore commits the Islamic Republic of Iran to reform legal measures that infringe with this principle.
We also call upon the Islamic Republic of Iran’s actual position as member state of the CSW, to underline that dialogue with civil society is a longstanding mechanism enshrined in the functioning of the United Nations. It is therefore unacceptable that women’s rights activists are persecuted for participating in the CSW in order to promote reforms that benefit the whole population of the Islamic Republic of Iran, in particular the women.
We therefore request the immediate release of Maryam Bahrman and all other activists of the “One Million Signatures Campaign for Equality” and the opening of a dialogue with them in order to start building together a society that fully respects the principles agreed upon by the Islamic Republic of Iran as State party to the International Covenant on Civil and Political Rights and the International Covenant on Economic, Social and Cultural Rights.
In the mean time, we urgently request to grant Maryam Bahrman access to her family, a lawyer of her choice and eventual medical treatment that she might require.
We thank you,
INSERIRE FIRMA

L’invio per posta è necessario, poiché esperienze precedenti hanno dimostrato che gli indirizzi e-mail vengono chiusi quando sono in atto mobilitazioni a sostegno di attivisti/e arrestati/e come in questo caso.
1) La versione italiana va inviata a
Ambasciatore Seyed Mohammad Ali Hosseini
Ambasciata della Repubblica Islamica d’Iran in Italia
Via Nomentana 363
00162 Roma
2) La versione inglese va inviata ai seguenti 3 indirizzi:
Head of Fars Province Judiciary                                         Intestare la lettera:  Dear Sir
Mr Zabihollah Khodaiyan

Piroozi Street
Shiraz, Fars Province
Islamic Republic of Iran

Minister of Intelligence                                                        Intestare la lettera: Your Excellency
Heydar Moslehi
Ministry of Information
Second Negarestan Street
Pasdaran Avenue
Tehran, Islamic Republic of Iran

Secretary General, High Council for Human Rights                       Intestare la lettera:  Dear Sir
Mohammad Javad Larijani
High Council for Human Rights
[Care of] Office of the Head of the Judiciary
Pasteur St., Vali Asr Ave. south of Serah-e Jomhouri
Tehran 1316814737, Islamic Republic of Iran
Per maggiori informazioni: AIDOS, Cristiana Scoppa, c.scoppa@aidos.it, tel. 06 6873196/214, cell. 339 1488018
Ufficio stampa AIDOS, Aurora Amendolagine, ufficiostampa@aidos.it, tel. 06 6873196/214

mercoledì 18 maggio 2011

IL FEMMINISMO È RILEVANTE PER LA NARRATIVA DEL VENTUNESIMO SECOLO?


Mentre la rivista “Granta” dedica il suo nuovo numero alla “parola con la F”, il quotidiano inglese The Independent il 13 maggio 2011 pubblica un articolo in cui Arifa Akbar interroga diversi autori sull’azione di politica sessuale del raccontare storie. Lo traduco qui di seguito:

“È fonte di dibattito quale sia l’anno in cui il femminismo ha fatto il suo ingresso nella letteratura inglese: alcuni considerano come spartiacque il 1962, anno in cui Doris Lessing ha messo in scena il conflitto interiore delle donne tra lavoro, maternità, amore e sesso, così come il dramma, fino ad allora tabù, del ciclo mestruale. Era un territorio talmente inesplorato, che l’autrice è stata considerata un “giovane arrabbiato”, in linea con la corrente letteraria dell’epoca. In realtà è stato un prototipico romanzo femminista all’avanguardia dell’ondata narrativa di “giovani arrabbiate” che attingevano a secoli di servitù domestica che mai prima aveva avuto voce.

È più difficile stabilire con precisione l’anno in cui il femminismo ha lasciato il campo della narrativa. Da qualche parte nel corso del tempo, si è deciso tacitamente che i narratori avevano superato questa fase che coniugava difficilmente narrazione e polemica.

Rivisitare il dibattito sulla scrittura delle donne e il femminismo potrebbe essere considerato un esercizio ridondante in un’epoca in cui libri scritti da donne attraversano più generi e si fanno largo sia tra i premi letterari che nei primi posti nelle classifiche delle vendite. Il dictum degli anni ’70 di “libri scritti da donne, sulle donne, per le donne” è senz’altro un anacronismo storico. I teorici critici considerano fuori moda la speculazione filosofica sullo scrivere il corpo, e non ci si domanda se le donne scrivono come esseri sessuati perché non si considera a sufficienza il ruolo dell’immaginazione nel processo di scrittura.

Ciononostante, persistono domande e sbilanciamenti. Il mese prossimo, l’Orange Prize annuncerà chi sarà la propria vincitrice, proprio mentre si dibatte, come ogni anno, sulla reale necessità di un premio letterario femminile, e mentre l’Australia comincia a prendere in considerazione l’idea di stabilire un premio basato sul modello dell’Orange Prize, tanto si sente la mancanza di un riconoscimento della narrativa femminile agli Antipodi.

Su questo sfondo, Granta giovedì prossimo pubblicherà “The F Word” (“La parola con la F” - £12.99), un numero dedicato alla riflessione sul genere, sul potere e il femminismo in cui Lydia Davis, Rachel Cusk, Jeanette Winterson, AS Byatt, Helen Simpson e Téa Obreht tra gli altri scrivono estesamente sul posto delle donne nel mondo, sul posto del femminismo nella narrativa e sulle carenze del movimento femminista degli anni ’70. John Freeman, editore di Granta, ritiene che quest’ultimo aspetto sia positivo: “Penso che tutti i movimenti politici debbano criticare l’eredità che lasciano, altrimenti diventano culti. Le scrittrici in questo numero fanno ciò che è naturale fare dopo decenni di fede in una causa – osservano vittorie e sconfitte e fanno l’inventario di come quest’idea si è infiltrata nella cultura e nella vita”.

Dimostrano anche, attraverso la divaricazione tra le problematiche importanti per queste autrici e quelle importanti per le precedenti, quanti progressi si sono fatti, sia nella vita che nella narrativa. Il racconto breve della Davis "The Dreadful Mucamas" è narrato dalla prospettiva di una ricca americana che guarda i propri domestici con preoccupazione e anche con una certa sospettosità bigotta. La Witerson, nel riflettere sulla storia d’amore tra Gertrude Steine e Alice B Toklas, si lamenta della fine del romanticismo nella nostra era post-femminista. Helen Simpson in "Night Thoughts" (“Pensieri notturni”) scrive satiricamente di un marito che riflette sui problemi di una società al contrario in cui gli uomini sono il secondo sesso.

Eppure, anche se Granta porta alla ribalta queste tematiche, il suo titolo – “La parola con la F” – fa riferimento all’avversione del mondo contemporaneo al termine femminismo. Molti lo ritengono problematico e limitante. Si cita sempre Joyce Carol Oates per la sua eccellenza nel creare voci femminili (spesso emarginate): la sua ultima raccolta di racconti, "Give Me Your Heart” (“Dammi il tuo cruore”- Corvus, £16.99) ne è un esempio perfetto. L’autrice afferma di scavare nella propria immaginazione, non nella politica, e che la letteratura migliore sopravvive allo sguardo politico: “Anche se molte giovani donne – e, a dire la verità, a volte anche degli uomini – mi dicono che per loro sono un ‘modello’ immaginativo, io non mi considero tale. A breve termine, una visione politica sembra essenziale, ma a lungo termine probabilmente è irrilevante. Per esempio, si avverte leggendo Jane Eyre che l’autrice è sia una rivoluzionaria (con la stessa traiettoria del suo racconto di una giovane orfanella senza diritti che ascende alla più straordinaria delle posizioni sociali) – che una tradizionalista (l’ascesa avviene attraverso l’amore e si realizza attraverso un matrimonio nella Chiesa d’Inghilterra): cioè, Charlotte Brontë trascende entrambe le prospettive nella sua genialità letteraria. Quante altre scrittrici hanno tentato di esprimere la stessa cosa con limitato successo letterario – i loro nomi a noi sconosciuti, adesso? All’inizio una visione politica rivoluzionaria attrae attenzione, ma se l’opera letteraria non è durevole, l’aspetto politico presto diventerà datato. Questo è il motivo per cui la gran parte di quelle poetesse americane che sono all’apparenza apolitiche si leggono come se fossero nostre contemporanee, mentre chi scriveva polemiche femministe negli anni ’70 e ’80 ha perso il suo pubblico”.

Questa prospettiva somiglia all’idea di androginia delineata da Virgina Woolf nel suo lavoro del 1929 “Una stanza tutta per sé”. “Per chiunque scriva”, diceva, “è fatale pensare al sesso”. Il suo elaborato suggeriva alle donne di scrivere come donne, non come donne consapevoli di essere donne!

In termini contemporanei, la sua androginia si può tradurre nell’universalità di soggetto, genere e tono che molti scrittori, anche quelli la cui narrativa si allineava al femminismo vecchia maniera, riconoscono come propria linea guida al di sopra di un intento politico. Margaret Atwood, per fare un esempio, ha recentemente preso le distanze dal femminismo letterario degli anni ’70, di cui è diventata uno standard ufficioso.

La scrittrice finlandese Sofi Oksanen paragona la narrativa politicizzata degli anni ’70 con la caduta della cortina di ferro tra l’Europa dell’Est e dell’Ovest, in cui l’Est ha dovuto poi mettersi in pari – un momento necessario: “Mia madre è nata nell’Estonia sovietiva dove non c’era libertà di parola, e quando la cortina di ferro è caduta, la gente dell’est voleva mettersi in pari con la gente dell’ovest. La libertà di parola era cosa nuova per loro. Se vivi al di qua del muro, ci vuole un po’ per metterti in pari. Potrebbe essere successa la stessa cosa per le scrittrici degli anni ‘70”.

Kate Mosse, la fondatrice del Premio Orange, riconosce che la vecchia generazione di donne sentiva il peso della propria posizione di nuovo standard, cosa che alla nuova generazione non succede. La loro immaginazione si è liberata, dice, cosicché possono scrivere narrativa che va il di là del realismo sociale del secchiaio. “So che ci sono molte scrittrici nere che hanno parlato di questo fardello. Andrea Levy, dopo aver vinto l’ Orange Prize, sentiva che la gente si sarebbe sorpresa se avesse cominciato a scrivere delle fate alla fine del giardino”.

Toril Moi, docente di letteratura alla Duke University e autrice del classico femminista “Sexual/Textual Politics”, è profondamente in disaccordo. L’immaginazione non si è ora magicamente liberata, e non era nemmeno bloccata dalla politica in passato. Queste argomentazioni dimostrano il grande disagio che c’è rispetto alla scrittura delle donne: “Comprendo benissimo che alcune donne possono sentirsi strette in un angolo dalla domanda ‘Sei una scrittrice donna?’ La gente tendenzialmente non fa questa domanda a un uomo”.

Affermare “Non sono una scrittrice donna” non significa necessariamente nemmeno essere anti-femminista, dice. In molti casi è l’espressione del desiderio di scappare dall’”altra” enclave. Forse, rifiutare quest’etichetta esprime il desiderio di entrare in un teritorio universale nella narrativa. Per la Woolf, il romanzo domestico era un’estensione della limitatezza delle vite delle donne: “Tutto l’addestramento letterario delle donne nei primi del diciannovesimo secolo era un allenamento all’osservazione della persona, all’analisi delle emozioni. La sua sensibilità era stata educata per secoli dalle influenze del salotto comune”.

Eppure ci sono due pesi e due misure. I romanzi scritti da uomini - John Updike, Philip Roth – sul tema del matrimonio, della famiglia, della vita domestica, sono considerati sia originali che universali, non ci si interroga sull’immaginazione. Nel corso dell’esisteza dell’Orange Prize, Mosse ha notato un notevole aumento di scrittori uomini che si cimentano con la vita domestica e le emozioni. “C’è la sensazione che la vita domestica stia diventando un’area da esplorare per la letteratura. Eppure, quando sono gli uomini a scrivere della vita domestica, le loro opere sono considerate grande letteratura, mentre se sono le donne a scrivere dello stesso tema, le loro opere sono considerate ‘quesioni femminili’”.

Moi aggiunge: “Roth scrive come scrive un maschio ebreo del New Jersey, ma nessuno considera il suo lavoro come “domestico”. È il grande romanzo americano. Lo stesso vale per “Libertà” di Jonathan Franzen. Le esperienze maschili sono considerate esperienze universali”.

C’è ancora chi vuole proporsi come scrittrice donna comunque. Urvashi Butalia, che scrive della sub-cultura hijra trans gender in India, scrive in “La parola con la F”: “Che ti piaccia o no, la tua prospettiva politica e il tuo sesso ti seguono nel mondo dell’immaginazione”. Manju Kapur, il cui ultimo romanzo “Custody” (“Affidamento”) si concentra sugli effetti del divorzio sui bambini, si posiziona in modo analogo contro la prospettiva della Oates. Scava le proprie storie a partire dal mondo intorno a sé. L’immaginazione entra in gioco nello sviluppo di quelle storie.

Margaret Drabble, la cui raccolta di racconti “A Day in the Life of a Smiling Woman” (“Un giorno nella vita di una donna sorridente” - Penguin Classics, £20), uscita in giugno, raccoglie storie che riguardano la lotta delle donne attraverso i decenni, sceglie di scrivere di donne perché “scrivo di ciò che per me è importante… Non sento il dovere o la responsabilità di scrivere narrativa sulle donne, e non me lo ha imposto nessuno. Ho scritto di donne perché le loro vite sono importanti per me. Ma lo sono anche l’ineguaglianza sociale e la povertà. Le vite delle donne sono andate avanti, le aspettative sono cambiate, i nostri orizzonti sono più ampi, ma non più di tanto. La vita di mia figlia è ancora più libera”.

Forse l’approccio di questa generazione più giovane è ben rappresentato da Oksanen, che ha 33 anni. Il suo terzo romanzo, "Purge” ("La purga" - Atlantic, £12.99), comprende il tema del traffico del sesso, dell’indipendenza dell’Estonia e dell’eredità dei gulag di Stalin. Ritiene che il dibattito sul femminismo non debba essere limitato. Alcuni, se non tutti, gli ideali del femminismo sono stati digeriti dagli autori e dalle autrici, per cui sono diventati parte di uno sguardo universale. “Ho sicuramente intenzioni femministe nei miei romanzi, ma sono solo una parte dell’intero romanzo. Molti valori femministi sono valori universali in occidente ora”.

Taiye Selasi, il cui romanzo in fieri “Ghana Must Go” ha già colpito molto Salman Rushdie e Toni Morrison, mette in scena la posizione impotente del contesto domestico della classe media del Ghana nella sua storia inclusa in“La parola con la F”, "The Sex Lives of African Girls" (“La vita sessuale delle ragazze africane”). Selasi dice che non ha fatto una scelta consapevole nello scrivere personaggi femminili forti. Semplicemente, emergono sulla pagina così. “Immagino che il femminismo di mia madre si esprima nel mio lavoro: i personaggi femminili dicono quello che pensano, le loro verità, per qunato quietamente. Semplicemente succede spontanemante: le donne appaiono sulla pagina con una saggezza loro. Non sono consapevole di scrivere con un progetto politico in mente, per quanto sia ovvio che ne ho ereditato uno. Scrivo per scrivere”.

Emma Donoghue, il cui ultimo romanzo “Room” (“Stanza, letto, armadio, specchio”) è in lizza sia per l’Orange prize che per il Commonwealth Writers' prize, spiega che non si sente obbligata a rappresentare la vita delle donne. Eppure la consapevolezza femminista rimane: “Credo che per me un romanziere femminista (maschio o femmina che sia) è un romanziere che nota l’appartenenza di genere. Quindi si potrebbe dire che ovviamente sono una scrittrice femminista se si considera che il mio lavoro si focalizza spesso sulla vita delle donne; cerco di raccontare storie mai raccontate, e molte tra queste storie sono di donne. Ma vorrei dire che mi ritengo ugualmente femminista quando scrivo personaggi maschili, perché sono ugualmente interessata al modo in cui le concezioni della mascolinità le formano (e in molti casi le cambiano)… Certamente non sento di scrivere all’interno di una distina tradizione della scrittura femminile”.

E chiaramente non esiste una sola tradizione. Ellah Allfrey, vice editor di Granta, sente che le diverse scritture contenute ne “La parola con la F” testimoniano la relatività delle definizioni di femminismo. “Femminismo significa cose diverse a seconda del tempo e dello spazio in cui si trovano le diverse donne. Il femminismo non può che essere altrettanto complicato quanto lo sono le donne stesse”.

Fonte: The Independent

martedì 17 maggio 2011

PROMOSSI E BOCCIATI AL CINEMA


Il Bechdel Test (conosciuto anche come Mo Movie Measure o come Bechdel Rule), è un test ideato nel 1985 da Alison Bechdel e Liz Wallace che consente di esaminare i film sotto il profilo dei bias di genere. Pone tre semplici domande:
·         Il film ha due o più personaggi femminili che abbiamo un nome?
·         Quei personaggi femminili parlano tra loro?
·         E, se è così, parlano di qualcosa che non siano uomini?
Sembra abbastanza semplice, no? No.
Come evidenziato anche in un recente articolo di Tad Fried ne The New Yorker, una quantità incredibile di film fallisce miseramente al vaglia di questo test, nonostante poggi su requisiti decisamente elementari.

Non credetemi sulla parola però: prima di andare avanti a leggere, provate a ripensare ai vostri film preferiti, e verificate se passano il test. Probabilmente no.

Mentre perla televisione ci sarebbe da fare una riflessione a parte, ecco alcuni esempi di film "bocciati" a questo test (alcuni dei quali segnalati anche dalla presentazione di “The Bechdel test for women in movies”): Il cielo sopra Berlino, Blue Valentine, District 9, The social network, Slumdog millionaire (e qui il discorso sarebbe lunghissimo, ma lasciamo stare…), Megamind, Shrek, Bruno, Angeli e demoni, Ghostbusters, Il grande Lebowski, Wall-E, Commessi, Fight club, Invictus, Indiana Jones, Alien 3, Il signore degli anelli 1, 2 e 3 (anche qui il discorso sarebbe lungo…), Shutter Island, The Truman show, Trainspotting, Missione impossibile, Braveheart, Toy story, Gladiator, Harry ti presento Sally, Ritorno al futuro 1, 2 e 3, Tomb Raider, Pulp fiction, Intervista col vampiro, Seven, Mamma ho perso l’aereo, Up, e molti, molti altri. Anzi, a ben vedere, sono davvero pochi i promossi.

Ma questo non ci può veramente sorprendere se solo si ricorda che in fondo ci si aspetta che i film (e i libri, i telefilm, etc.) con protagonisti maschili siano adatti, e rivolti, a tutto il pubblico, che siano universali insomma (gli uomini sarebbero l’umanità intera, donne comprese, assimilate tout court all’esperienza maschile), mentre quelli con protagoniste femminili sono considerati rivolti solo alle donne (le donne sono solo donne, l’estensione a tutto il genere umano non vale per la prospettiva femminile, nemmeno per riflessione complementare alla maschile). Gli uomini fanno molta fatica a identificarsi con abbandono e senza riserve con un personaggio femminile, mentre le donne lo fanno costantemente.
Jennifer Kesler, in un articolo di giugno 2008, ha addirittura rivelato che alcune scuole di cinema insegnano espressamente agli sceneggiatori di scegliere come protagonisti esclusivamente uomini etero bianchi perché il pubblico può anche essere interessato a una donna, o a un uomo nero, o a un gay se si tratta di un personaggio affascinante, ma solo se non lo distrae troppo dai maschi bianchi che ha pagato per vedere.
Parlando della propria esperienza presso l’Università della California, la Kesler ha raccontato di come i suoi copioni venivano criticati proprio perché contenevano personaggi femminili (con un nome) che parlavano tra loro di altro che non fosse di uomini. “Il pubblico non vuole stare a sentire un gruppo di donne che parlano tra loro di qualunque sia ciò di cui parlano le donne”, ha tagliato corto un suo professore.  Perderesti audience, le avevano detto, perché il pubblico maschile (quello che conta, evidentemente) quando nel mezzo del film c’è una scena con delle donne che dialogano tra loro si distrae, aspetta che finiscano di parlare di smalto, o di scarpe, o quello che è, e tornano a prestare attenzione solo quando sentono il nome di un uomo, perché allora può avere senso seguire la conversazione.
Non so se è così, e voglio credere che non lo sia per tutti, ma se lo è anche solo parzialmente, ritengo sia un motivo sufficiente per cominciare a scrivere di più donne protagoniste in cui uomini e donne si possano ugualmente identificare, per somiglianza o per differenza, semplicemente perché sono dei bei personaggi, complessi, con delle storie, delle esperienze, e con qualcosa da dire.
Parliamone, perché siamo donne, abbiamo un nome e non siamo presenti solo quando parliamo di uomini.

martedì 10 maggio 2011

NON CI SIAMO


Recentemente il Washington post ha riportato l’ormai notissima fotografia del team della sicurezza nazionale americana riunita nella Situation Room mentre guarda scioccata e assorta il video del raid che ha portato all’uccisione di Osama Bin Laden, così come è stata pubblicata dal quotidiano yiddish ortodosso Der Tzitung. La fotografia originale appare così:




Vedete la differenza? Ebbene sì, le donne sono sparite. Manca la direttrice dell’unità antiterrorismo Audrey Tomason e manca il segretario di stato Hillary Clinton, che con la sua reazione, che la mostra con la mano alla bocca, ha così chiaramente espresso l’emozione di quel momento.

Il quotidiano ha dovuto pubblicare una lettera di scuse che, lungi dal giustificare la scelta, ha esplicitato il problema scrivendo: “Coerentemente con le nostre convinzioni religiose, non pubblichiamo foto di donne, cosa che non le relega minimamente a uno status inferiore”. “Per via delle leggi sulla modestia, non possiamo pubblicare foto di donne e ci dispiace se questo dà l’impressione di denigrare le donne, cosa che non è certamente nostra intenzione. Ci scusiamo se è stato percepito come offensivo”, ha concluso.

Non commento, perché una foto vale davvero più di mille parole.

domenica 8 maggio 2011

BAMBINE (MAL)EDUCATE


Oggi è la festa della mamma, e voglio dedicare questo post a un aspetto specifico del ruolo genitoriale, ovvero all’educazione della differenza tra i sessi.
Nel 2003 è uscito per Palomar (collana Telemaco) un libro di Francesca Bellafronte, docente di Scienze della formazione, dal titolo “Bambine (mal)educate – l’identità di genere trent’anni dopo”. Si tratta di una ricerca in cui l’autrice ha intervistato 109 bambini di quarta e quinta elementare della provincia di Foggia. La Bellafronte ha chiesto ai bambini e alle bambine di descrivere i maschi e le femmine attraverso degli aggettivi che rappresentassero il loro modo di percepire i due sessi.
Quello che emerge è che le BAMBINE descrivono LE FEMMINE come:


...ma anche:

I BAMBINI descrivono LE FEMMINE come:

...ma anche:



Le BAMBINE descrivono invece I MASCHI come:


...ma anche:




I BAMBINI dal canto loro descrivono I MASCHI come:


...ma anche:




Colpisce che i bambini percepiscano il loro contributo nella storia e nella scienza come specificatamente maschile e il contributo femminile come apporto casalingo e bellezza fisica; inoltre, i bambini si percepiscono come forti e intelligenti, visione condivisa anche dalle bambine. Per le bambine invece l’aspetto più distintivo pare andare nella direzione della mansuetudine, con marcate attitudini verso l’accudimento. Inoltre, l’elenco dei difetti delle femmine rispetto a quello dei maschi appare evidentemente più denigratorio e più nutrito, mostrando, come dice la Bellafronte, di avere interiorizzato precocemente “una cattiva considerazione di se stesse: la quale, anziché essere stemperata dall’amor proprio o da qualche forma di orgoglio di genere, paradossalmente le rende partecipi e conniventi ai processi di interiorizzazione sociale”.

Certamente non si tratta di uno studio scientificamente attendibile, ma mi è parso comunque un interessante spunto di riflessione. In fondo, siamo davvero consapevoli dell’immagine di genere che stiamo trasmettendo alle nuove generazioni?

 

mercoledì 4 maggio 2011

EDUCARE LE BAMBINE PER CAMBIARE IL MONDO



Esiste un movimento internazionale che ha come obiettivo l’educazione delle bambine, per cambiare la loro vita, ma in fondo per cambiare la vita di tutto il mondo, spezzando il circolo vizioso della povertà. Si chiama 10x10 e ha senso al 100%.
Facciamo degli esempi. Il sito ufficiale di questa campagna, denuncia che in Cambogia 4 su 5 bambine interrompono gli studi a 13 anni; in India solo l’11% delle ragazze va all’università; in Nigeria il 60% delle bambine non riceve un’educazione. In tutto il mondo, centinaia di milioni di donne non sono nemmeno in grado di leggere.

Eppure, i dati evidenziano che l’educazione delle bambine migliora radicalmente non solo la loro vita, ma anche quella delle loro famiglie, delle comunità a cui appartengono e, più globalmente quindi dei loro Paesi. Le bambine che ricevono un’educazione infatti avranno come donne meno probabilità di contrarre l’HIV/AIDS (si stima fino ai 700,000 casi in meno all’anno) o di subire violenze domestiche e in media guadagnano di più, partecipano maggiormente alla vita pubblica e generano bambini più sani. Inoltre, attorno alle bambine ruotano un insieme complesso di questioni, dalla sicurezza economica, alla salute, alla prevenzione della violenza, all’integrità ambientale, ai diritti umani. Perché, come disse una volta Hillary Clinton in un famoso discorso che vale la pena leggere, i diritti delle donne sono diritti umani.

Insomma, un’educazione di qualità per le bambine ha un impatto sulla vita di tutti. Il movimento sta producendo un film (10 sceneggiatrici con 10 attrici in 10 Paesi diversi, da cui il nome della campagna) per creare rapporti con realtà non profit al fine di investire nel futuro delle adolescenti che vivono nei Paesi in via di sviluppo in tre modi fondamentali: 1. recuperando risorse per programmi rivolti alle bambine che possano servire da modello per il cambiamento; 2. Sensibilizzando l’opinione pubblica e creando quindi una rete che parta spontaneamente dalla popolazione; 3. Rendendo accessibile un maggiore supporto per l’empowerment della risorsa mondiale più sprecata in assoluto: le bambine e le donne.

Questa è la settimana dell’Azione Globale: dagli Stati Uniti all’Inghilterra, dal Brasile al Bamgladesh, ci si sta battendo perché “educazione per tutti” significhi anche “educazione per tutte”.

lunedì 2 maggio 2011

SIAMO FATTE COSÌ



A maggio 2011 ci sarà l’inaugurazione della notevole mostra “The great wall of vagina” (“Il grande muro della vagina”) al Brighton Festival Fringe. L’artista, Jamie McCartney, ha realizzato circa 400 calchi tratti dal vivo, sculture e bassorilievi di vagine, che ha esposto in dieci pannelli. L’autore spiega che “la fascia d’età delle donne è dai 18 ai 76 anni. Le vagine rappresentate appartengono a madri e figlie, sorelle gemelle, transgender, donne gravide e neo mamme”. Ci sono vergini, porno star, donne con piercing elaborati, … “Ho trascorso 5 anni alla ricerca di vittime di mutilazioni genitali disposte a essere incluse, purtroppo senza successo”, aggiunge.

Qualcuno qui in Italia (es. La Voce, Gexplorer, …) ha commentato che “inaspettatamente i visitatori più comuni non sono solo giovani uomini arrapati ma anche e soprattutto tante donne incuriosite e affascinate”. Un commento importante, che mette in luce proprio uno dei motivi per cui una mostra come questa si rende necessaria. Ciò che esprime infatti è l’abitudine a considerare gli organi sessuali femminili solo come oggetto del desiderio maschile. Come già evidenziato da Eve Ensler nel suo celebre “I monologhi della vagina”, la letteratura e l’immaginario collettivo propone una serie ricca e variegata di rappresentazioni del pene in contesti e con valenze e sfumature diverse. Non è così per la vagina, a cui si tende a dare spazio, legittimità e valore quasi esclusivamente in funzione del piacere maschile, come puro oggetto di desiderio dell’uomo, mai come soggetto. D’altra parte, lo stesso termine, vagina, nasce in riferimento alla guaina in cuoio della spada o del pugnale, e quindi in marcata relazione alla penetrazione.

L’obiettivo di questa esposizione è invece di denunciare e riflettere sul senso di insicurezza, ansia e inadeguatezza di cui soffrono molte donne rispetto ai propri genitali, che sono spesso poco conosciuti dalle donne stesse, velati da un mistero di indicibilità, di oscurità, di tabù. La cultura contemporanea infatti coniuga al contempo l’inibizione dell’esplorazione da parte della donna dei propri organi genitali con l’imposizione di una visione omogenea di come dovrebbe essere la donna perfetta (agli occhi e per il desiderio dell’uomo), con genitali “perfetti”, dove la diversità è difetto, la conoscenza è azzardo, e l’angoscia della propria insicurezza non ha opportunità di confronto o di riscontro.

La mostra è insomma un exposé della enorme varietà dell’essere umano, dell’essere donna, in cui donne e uomini avranno l’opportunità di modificare i propri pregiudizi su come può essere fatta la vagina, “rendendola ‘pubblica’ in modo da ristabilire l’equilibrio tra imbarazzo e consapevolezza”.

The Great Wall of Vagina : Trailer from James Lane on Vimeo.