mercoledì 10 agosto 2011

PIÙ DI DIECI DONNE, MENO DI UNA PSICOTERAPIA


Sono stata molto contenta questo mese di avere avuto il privilegio di leggere in anteprima l’ultimo romanzo della scrittrice cilena Marcela Serrano, “Dieci donne”, in uscita il libreria dal 24 agosto. In passato avevo letto il suo “Arrivederci piccole donne” e mi era piaciuto: ne avevo apprezzato la scrittura leggera, ritmica, visiva, quasi solida. Certo, ha un po’ il vezzo dell’aforismo facile, ma si fa perdonare scrivendo bene e riuscendo a dare voce all’esperienza femminile in modo quotidiano e immediato, e raro da trovare, anche nella buona letteratura. E poi, il suo nuovo libro si apre con una bellissima citazione di una delle mie poetesse preferite - Wislawa Szymborska. Le premesse insomma erano buone e in parte sono state confermate.

Ma partiamo dall’inizio. Il libro dà voce in prima persona a nove donne che presentano se stesse e la propria storia, a turno, in un gruppo di psicoterapia. A ognuna di loro è dedicato un capitolo, a cui si aggiunge il decimo che racconta della psichiatra (con una formazione psicanalitica, si dice, anche se da ciò che fa, pensa e dice non si direbbe proprio, non c’è “late style” che tenga) attraverso gli occhi della sua “assistente”. Lo indico tra virgolette perché non si tratta di una futura psichiatra, psicologa o psicoterapeuta che sta facendo il tirocinio. No. Dice di sé: “Non ho mai studiato. Ho frequentato la facoltà di lettere per un paio d’anni, e a motivarmi è stata sempre e solo la letteratura” (pag. 256). Ora, il personaggio non avrà mai studiato psicoterapia, ma, tesoro, se hai frequentato due anni di Lettere all’Università non puoi dire che non hai studiato. Ma questo è un dettaglio. Il punto è che non è chiaro a che titolo sia lì. E che cosa stanno facendo in quel gruppo, da un punto di vista terapeutico, è ancora meno chiaro (non lo sa nemmeno l'“assistente”, che lo confessa candidamente).
Ciò che più ho apprezzato nel romanzo è la sua coralità. La struttura non si presta nemmeno molto a questo, perché purtroppo nessuna delle donne interagisce con l’altra, se non in qualche fugace accenno. Le protagoniste infatti raccontano a turno la propria storia (di giornalista stuprata, di anziana, di vedova di un desaparecido, di adolescente lesbica, di madre, di orfana, etc.), ma ciascuna vicenda è talmente ricca di personaggi femminili che si ascolta come un coro, non come un assolo. A dire il vero la dimensione dell’amicizia mi è un po’ mancata, ma la varietà armonica di diverse età, estrazioni sociali, posizioni politiche, orientamenti ed esperienze sessuali, vite familiari, livello culturale, formazioni professionali e aspirazioni esistenziali è tale e talmente organica, naturale e femminile da offrire davvero di più della singola storia di dieci donne.
Alcuni momenti sono toccanti, altri esasperanti, altri ancora inverosimili, e altri piacevoli. Ci sono riferimennti espliciti e impliciti al femminismo e all'importanza del ruolo giocato (nel bene e nel male) da altre donne: dalle madri, dalle amanti, dalle sorelle, ma anche da tutte quelle presenze trasversali che informano il nostro modo di essere donne nella vita di tutti i giorni. E forse è proprio questo sfondo brulicante di donne che è mi è piaciuto più di ogni altra cosa, e che tanto spesso mi manca in molta letteratura, anche ottima.
Speravo che questa pluralità di voci si rispecchiasse anche nei “timbri narrativi”, negli stili di presentazione, nelle modalità espositive e linguistiche dei presonaggi; questo in effetti in parte è avvenuto, ma non quanto avrei voluto. Chissà se in originale sarebbe stato diverso...
Peccato però far dire con sufficienza a un personaggio che si presenta come appassionata di letteratura: “Il Cile stava crollando mentre io flirtavo con il bel Mr. Darcy”. Mi sa che ha fatto bene il personaggio ad abbandonare gli studi di Lettere, e non perché studiare letteratura comportava un eccesso di analisi, ma perché se leggere Jane Austen per lei è flirtare con il bel Darcy, evidentemente non sa leggere – leggere davvero. (Ma perché è così raro che gli scrittori e le scrittrici scrivano lettori credibili?).

Quello che invece rimprovero accoratamente a questo romanzo è di avere proposto un setting, un linguaggio, una premessa ideologica che rischia di patologizzare l’esperienza femminile, di decantare acriticamente le meraviglie della psicofarmacologia, e di confondere il guarire con l’essere felici e l’amore con la competenza professionale. Nella nostra cultura, l’esperienza femminile viene troppo spesso patologizzata perché ci si possa permettere questo scivolone, che è ancora più grave se a scivolare è una brava scrittrice come la Serrano.

“Ascoltare storie regala molte vite, raccontarle attenua la solitudine” dice la fascetta del libro, che cita l’autrice. Sono d’accordo. Ma la terapia è un’altra cosa, e una terapeuta non è un’amica o una mamma o una guida spirituale. Se si confondono i due piani, c’è qualcosa di gravemente sbagliato sia in come si concepisce la terapia che in come si concepisce l’amicizia (o la maternità, o la guida spirituale). Raccontare non basta: non basta alla buona psicoterapia e non basta alla buona letteratura.
Per fortuna in “Dieci Donne” c’è di più di questo: c’è una scatola magica che risuona di voci femminili, come succede troppo di rado. Peccato che le imprigioni in una patologizzazione semplicistica e preoccupante, come succede troppo spesso.

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