venerdì 1 aprile 2011

THE FEMININE MYSTIQUE: un classico necessario


Ho deciso di leggere questo libro perché è considerato, a ragione, uno dei capisaldi della letteratura femminista. Di fatto,  ha contribuito fortemente alla definizione del “problema senza nome”, ovvero di ciò che l’autrice, Betty Friedan, definisce “la mistificazione del femminile”. Insieme a un nome, dà una legittimità alle rivendicazioni delle donne degli anni ’60, e denuncia il maschilismo implicito che ne sanciva un ruolo inferiore e infantilizzato, e al tempo stesso ne patologizzava le conseguenze emozionali e identitarie per la donna, proprio perché le negava la dignità di persona adulta e senziente, portatrice di aspirazioni e competenze.
La mia esperienza di lettura in realtà è stata ambivalente. Da una parte ho constatato con sollievo i progressi culturalmente fatti e seguito con interesse che riflessioni li hanno consentiti; dall’altra ho riconosciuto battaglie ancora in corso nella mia esperienza di vita quotidiana. Certo, la realtà americana e quella italiana sono, nel bene e nel mare, diverse e complesse, non direttamente e automaticamente sovrapponibili l’una all’altra sia in termini di sviluppo culturale diacronico, sia in termini di riferimenti valoriali del sistema culturale (una per tutte, l’influenza determinante della chiesa cattolica nella matrice collettiva italiana). Eppure, alcune dimensioni di rivendicazione ritornano tristemente anche oggi.

Di converso, il tempo trascorso ha saputo mettere in luce anche i limiti e le criticità di questo testo che in fondo ha rappresentato una specifica ondata di femminismo, che agli occhi di un lettore attuale, o per lo meno dei miei, appare senz’altro datato (la concezione semplicistica del lavoro femminile, la patologizzazione dell’omosessualità, etc.). Inevitabilmente, alcune osservazioni risentono insomma della cultura dominante da cui non sono riuscite ad affrancarsi. Un esempio particolarmente calzante riguarda la prospettiva freudiana che viene da un lato appropriatamente criticata (perché invidia del pene e non invidia dell’utero e della sua possibilità generativa?), e dall’altro comunque utilizzata come chiave di lettura di molta dell’esperienza psicologica affrontata. Il testo cioè non riconosce nel contributo freudiano la stessa confusione tra giudizi di fatto e giudizi di valore, lo stesso contrabbando di valutazioni morali e moralistiche del patriarcato maschilista, camuffate da valutazioni scientifiche, che legittimavano l’oppressione che il libro voleva denunciare. O meglio, le riconosce, ma poi non se ne sa sottrarre. Alla fine comunque mi rendo conto di quanto sia difficile, immersi in una certa cultura, vederla. Mi viene in mente la storia raccontata da David Foster Wallace nel suo Kenyon Commencement speech del 2005: due giovani pesciolini ne incrociano uno più anziano che li saluta e dice loro: “Ciao ragazzi! Com’è l’acqua?”, al che i due pesciolini si guardano perplessi e si chiedono “Che roba è l’acqua?”

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