mercoledì 18 maggio 2011

IL FEMMINISMO È RILEVANTE PER LA NARRATIVA DEL VENTUNESIMO SECOLO?


Mentre la rivista “Granta” dedica il suo nuovo numero alla “parola con la F”, il quotidiano inglese The Independent il 13 maggio 2011 pubblica un articolo in cui Arifa Akbar interroga diversi autori sull’azione di politica sessuale del raccontare storie. Lo traduco qui di seguito:

“È fonte di dibattito quale sia l’anno in cui il femminismo ha fatto il suo ingresso nella letteratura inglese: alcuni considerano come spartiacque il 1962, anno in cui Doris Lessing ha messo in scena il conflitto interiore delle donne tra lavoro, maternità, amore e sesso, così come il dramma, fino ad allora tabù, del ciclo mestruale. Era un territorio talmente inesplorato, che l’autrice è stata considerata un “giovane arrabbiato”, in linea con la corrente letteraria dell’epoca. In realtà è stato un prototipico romanzo femminista all’avanguardia dell’ondata narrativa di “giovani arrabbiate” che attingevano a secoli di servitù domestica che mai prima aveva avuto voce.

È più difficile stabilire con precisione l’anno in cui il femminismo ha lasciato il campo della narrativa. Da qualche parte nel corso del tempo, si è deciso tacitamente che i narratori avevano superato questa fase che coniugava difficilmente narrazione e polemica.

Rivisitare il dibattito sulla scrittura delle donne e il femminismo potrebbe essere considerato un esercizio ridondante in un’epoca in cui libri scritti da donne attraversano più generi e si fanno largo sia tra i premi letterari che nei primi posti nelle classifiche delle vendite. Il dictum degli anni ’70 di “libri scritti da donne, sulle donne, per le donne” è senz’altro un anacronismo storico. I teorici critici considerano fuori moda la speculazione filosofica sullo scrivere il corpo, e non ci si domanda se le donne scrivono come esseri sessuati perché non si considera a sufficienza il ruolo dell’immaginazione nel processo di scrittura.

Ciononostante, persistono domande e sbilanciamenti. Il mese prossimo, l’Orange Prize annuncerà chi sarà la propria vincitrice, proprio mentre si dibatte, come ogni anno, sulla reale necessità di un premio letterario femminile, e mentre l’Australia comincia a prendere in considerazione l’idea di stabilire un premio basato sul modello dell’Orange Prize, tanto si sente la mancanza di un riconoscimento della narrativa femminile agli Antipodi.

Su questo sfondo, Granta giovedì prossimo pubblicherà “The F Word” (“La parola con la F” - £12.99), un numero dedicato alla riflessione sul genere, sul potere e il femminismo in cui Lydia Davis, Rachel Cusk, Jeanette Winterson, AS Byatt, Helen Simpson e Téa Obreht tra gli altri scrivono estesamente sul posto delle donne nel mondo, sul posto del femminismo nella narrativa e sulle carenze del movimento femminista degli anni ’70. John Freeman, editore di Granta, ritiene che quest’ultimo aspetto sia positivo: “Penso che tutti i movimenti politici debbano criticare l’eredità che lasciano, altrimenti diventano culti. Le scrittrici in questo numero fanno ciò che è naturale fare dopo decenni di fede in una causa – osservano vittorie e sconfitte e fanno l’inventario di come quest’idea si è infiltrata nella cultura e nella vita”.

Dimostrano anche, attraverso la divaricazione tra le problematiche importanti per queste autrici e quelle importanti per le precedenti, quanti progressi si sono fatti, sia nella vita che nella narrativa. Il racconto breve della Davis "The Dreadful Mucamas" è narrato dalla prospettiva di una ricca americana che guarda i propri domestici con preoccupazione e anche con una certa sospettosità bigotta. La Witerson, nel riflettere sulla storia d’amore tra Gertrude Steine e Alice B Toklas, si lamenta della fine del romanticismo nella nostra era post-femminista. Helen Simpson in "Night Thoughts" (“Pensieri notturni”) scrive satiricamente di un marito che riflette sui problemi di una società al contrario in cui gli uomini sono il secondo sesso.

Eppure, anche se Granta porta alla ribalta queste tematiche, il suo titolo – “La parola con la F” – fa riferimento all’avversione del mondo contemporaneo al termine femminismo. Molti lo ritengono problematico e limitante. Si cita sempre Joyce Carol Oates per la sua eccellenza nel creare voci femminili (spesso emarginate): la sua ultima raccolta di racconti, "Give Me Your Heart” (“Dammi il tuo cruore”- Corvus, £16.99) ne è un esempio perfetto. L’autrice afferma di scavare nella propria immaginazione, non nella politica, e che la letteratura migliore sopravvive allo sguardo politico: “Anche se molte giovani donne – e, a dire la verità, a volte anche degli uomini – mi dicono che per loro sono un ‘modello’ immaginativo, io non mi considero tale. A breve termine, una visione politica sembra essenziale, ma a lungo termine probabilmente è irrilevante. Per esempio, si avverte leggendo Jane Eyre che l’autrice è sia una rivoluzionaria (con la stessa traiettoria del suo racconto di una giovane orfanella senza diritti che ascende alla più straordinaria delle posizioni sociali) – che una tradizionalista (l’ascesa avviene attraverso l’amore e si realizza attraverso un matrimonio nella Chiesa d’Inghilterra): cioè, Charlotte Brontë trascende entrambe le prospettive nella sua genialità letteraria. Quante altre scrittrici hanno tentato di esprimere la stessa cosa con limitato successo letterario – i loro nomi a noi sconosciuti, adesso? All’inizio una visione politica rivoluzionaria attrae attenzione, ma se l’opera letteraria non è durevole, l’aspetto politico presto diventerà datato. Questo è il motivo per cui la gran parte di quelle poetesse americane che sono all’apparenza apolitiche si leggono come se fossero nostre contemporanee, mentre chi scriveva polemiche femministe negli anni ’70 e ’80 ha perso il suo pubblico”.

Questa prospettiva somiglia all’idea di androginia delineata da Virgina Woolf nel suo lavoro del 1929 “Una stanza tutta per sé”. “Per chiunque scriva”, diceva, “è fatale pensare al sesso”. Il suo elaborato suggeriva alle donne di scrivere come donne, non come donne consapevoli di essere donne!

In termini contemporanei, la sua androginia si può tradurre nell’universalità di soggetto, genere e tono che molti scrittori, anche quelli la cui narrativa si allineava al femminismo vecchia maniera, riconoscono come propria linea guida al di sopra di un intento politico. Margaret Atwood, per fare un esempio, ha recentemente preso le distanze dal femminismo letterario degli anni ’70, di cui è diventata uno standard ufficioso.

La scrittrice finlandese Sofi Oksanen paragona la narrativa politicizzata degli anni ’70 con la caduta della cortina di ferro tra l’Europa dell’Est e dell’Ovest, in cui l’Est ha dovuto poi mettersi in pari – un momento necessario: “Mia madre è nata nell’Estonia sovietiva dove non c’era libertà di parola, e quando la cortina di ferro è caduta, la gente dell’est voleva mettersi in pari con la gente dell’ovest. La libertà di parola era cosa nuova per loro. Se vivi al di qua del muro, ci vuole un po’ per metterti in pari. Potrebbe essere successa la stessa cosa per le scrittrici degli anni ‘70”.

Kate Mosse, la fondatrice del Premio Orange, riconosce che la vecchia generazione di donne sentiva il peso della propria posizione di nuovo standard, cosa che alla nuova generazione non succede. La loro immaginazione si è liberata, dice, cosicché possono scrivere narrativa che va il di là del realismo sociale del secchiaio. “So che ci sono molte scrittrici nere che hanno parlato di questo fardello. Andrea Levy, dopo aver vinto l’ Orange Prize, sentiva che la gente si sarebbe sorpresa se avesse cominciato a scrivere delle fate alla fine del giardino”.

Toril Moi, docente di letteratura alla Duke University e autrice del classico femminista “Sexual/Textual Politics”, è profondamente in disaccordo. L’immaginazione non si è ora magicamente liberata, e non era nemmeno bloccata dalla politica in passato. Queste argomentazioni dimostrano il grande disagio che c’è rispetto alla scrittura delle donne: “Comprendo benissimo che alcune donne possono sentirsi strette in un angolo dalla domanda ‘Sei una scrittrice donna?’ La gente tendenzialmente non fa questa domanda a un uomo”.

Affermare “Non sono una scrittrice donna” non significa necessariamente nemmeno essere anti-femminista, dice. In molti casi è l’espressione del desiderio di scappare dall’”altra” enclave. Forse, rifiutare quest’etichetta esprime il desiderio di entrare in un teritorio universale nella narrativa. Per la Woolf, il romanzo domestico era un’estensione della limitatezza delle vite delle donne: “Tutto l’addestramento letterario delle donne nei primi del diciannovesimo secolo era un allenamento all’osservazione della persona, all’analisi delle emozioni. La sua sensibilità era stata educata per secoli dalle influenze del salotto comune”.

Eppure ci sono due pesi e due misure. I romanzi scritti da uomini - John Updike, Philip Roth – sul tema del matrimonio, della famiglia, della vita domestica, sono considerati sia originali che universali, non ci si interroga sull’immaginazione. Nel corso dell’esisteza dell’Orange Prize, Mosse ha notato un notevole aumento di scrittori uomini che si cimentano con la vita domestica e le emozioni. “C’è la sensazione che la vita domestica stia diventando un’area da esplorare per la letteratura. Eppure, quando sono gli uomini a scrivere della vita domestica, le loro opere sono considerate grande letteratura, mentre se sono le donne a scrivere dello stesso tema, le loro opere sono considerate ‘quesioni femminili’”.

Moi aggiunge: “Roth scrive come scrive un maschio ebreo del New Jersey, ma nessuno considera il suo lavoro come “domestico”. È il grande romanzo americano. Lo stesso vale per “Libertà” di Jonathan Franzen. Le esperienze maschili sono considerate esperienze universali”.

C’è ancora chi vuole proporsi come scrittrice donna comunque. Urvashi Butalia, che scrive della sub-cultura hijra trans gender in India, scrive in “La parola con la F”: “Che ti piaccia o no, la tua prospettiva politica e il tuo sesso ti seguono nel mondo dell’immaginazione”. Manju Kapur, il cui ultimo romanzo “Custody” (“Affidamento”) si concentra sugli effetti del divorzio sui bambini, si posiziona in modo analogo contro la prospettiva della Oates. Scava le proprie storie a partire dal mondo intorno a sé. L’immaginazione entra in gioco nello sviluppo di quelle storie.

Margaret Drabble, la cui raccolta di racconti “A Day in the Life of a Smiling Woman” (“Un giorno nella vita di una donna sorridente” - Penguin Classics, £20), uscita in giugno, raccoglie storie che riguardano la lotta delle donne attraverso i decenni, sceglie di scrivere di donne perché “scrivo di ciò che per me è importante… Non sento il dovere o la responsabilità di scrivere narrativa sulle donne, e non me lo ha imposto nessuno. Ho scritto di donne perché le loro vite sono importanti per me. Ma lo sono anche l’ineguaglianza sociale e la povertà. Le vite delle donne sono andate avanti, le aspettative sono cambiate, i nostri orizzonti sono più ampi, ma non più di tanto. La vita di mia figlia è ancora più libera”.

Forse l’approccio di questa generazione più giovane è ben rappresentato da Oksanen, che ha 33 anni. Il suo terzo romanzo, "Purge” ("La purga" - Atlantic, £12.99), comprende il tema del traffico del sesso, dell’indipendenza dell’Estonia e dell’eredità dei gulag di Stalin. Ritiene che il dibattito sul femminismo non debba essere limitato. Alcuni, se non tutti, gli ideali del femminismo sono stati digeriti dagli autori e dalle autrici, per cui sono diventati parte di uno sguardo universale. “Ho sicuramente intenzioni femministe nei miei romanzi, ma sono solo una parte dell’intero romanzo. Molti valori femministi sono valori universali in occidente ora”.

Taiye Selasi, il cui romanzo in fieri “Ghana Must Go” ha già colpito molto Salman Rushdie e Toni Morrison, mette in scena la posizione impotente del contesto domestico della classe media del Ghana nella sua storia inclusa in“La parola con la F”, "The Sex Lives of African Girls" (“La vita sessuale delle ragazze africane”). Selasi dice che non ha fatto una scelta consapevole nello scrivere personaggi femminili forti. Semplicemente, emergono sulla pagina così. “Immagino che il femminismo di mia madre si esprima nel mio lavoro: i personaggi femminili dicono quello che pensano, le loro verità, per qunato quietamente. Semplicemente succede spontanemante: le donne appaiono sulla pagina con una saggezza loro. Non sono consapevole di scrivere con un progetto politico in mente, per quanto sia ovvio che ne ho ereditato uno. Scrivo per scrivere”.

Emma Donoghue, il cui ultimo romanzo “Room” (“Stanza, letto, armadio, specchio”) è in lizza sia per l’Orange prize che per il Commonwealth Writers' prize, spiega che non si sente obbligata a rappresentare la vita delle donne. Eppure la consapevolezza femminista rimane: “Credo che per me un romanziere femminista (maschio o femmina che sia) è un romanziere che nota l’appartenenza di genere. Quindi si potrebbe dire che ovviamente sono una scrittrice femminista se si considera che il mio lavoro si focalizza spesso sulla vita delle donne; cerco di raccontare storie mai raccontate, e molte tra queste storie sono di donne. Ma vorrei dire che mi ritengo ugualmente femminista quando scrivo personaggi maschili, perché sono ugualmente interessata al modo in cui le concezioni della mascolinità le formano (e in molti casi le cambiano)… Certamente non sento di scrivere all’interno di una distina tradizione della scrittura femminile”.

E chiaramente non esiste una sola tradizione. Ellah Allfrey, vice editor di Granta, sente che le diverse scritture contenute ne “La parola con la F” testimoniano la relatività delle definizioni di femminismo. “Femminismo significa cose diverse a seconda del tempo e dello spazio in cui si trovano le diverse donne. Il femminismo non può che essere altrettanto complicato quanto lo sono le donne stesse”.

Fonte: The Independent

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