Il Bechdel Test (conosciuto anche come Mo Movie Measure o come Bechdel Rule), è un test ideato nel 1985 da Alison Bechdel e Liz Wallace che consente di esaminare i film sotto il profilo dei bias di genere. Pone tre semplici domande:
· Il film ha due o più personaggi femminili che abbiamo un nome?
· Quei personaggi femminili parlano tra loro?
· E, se è così, parlano di qualcosa che non siano uomini?
Sembra abbastanza semplice, no? No.
Come evidenziato anche in un recente articolo di Tad Fried ne The New Yorker, una quantità incredibile di film fallisce miseramente al vaglia di questo test, nonostante poggi su requisiti decisamente elementari.
Non credetemi sulla parola però: prima di andare avanti a leggere, provate a ripensare ai vostri film preferiti, e verificate se passano il test. Probabilmente no.
Mentre perla televisione ci sarebbe da fare una riflessione a parte, ecco alcuni esempi di film "bocciati" a questo test (alcuni dei quali segnalati anche dalla presentazione di “The Bechdel test for women in movies”): Il cielo sopra Berlino, Blue Valentine, District 9, The social network, Slumdog millionaire (e qui il discorso sarebbe lunghissimo, ma lasciamo stare…), Megamind, Shrek, Bruno, Angeli e demoni, Ghostbusters, Il grande Lebowski, Wall-E, Commessi, Fight club, Invictus, Indiana Jones, Alien 3, Il signore degli anelli 1, 2 e 3 (anche qui il discorso sarebbe lungo…), Shutter Island, The Truman show, Trainspotting, Missione impossibile, Braveheart, Toy story, Gladiator, Harry ti presento Sally, Ritorno al futuro 1, 2 e 3, Tomb Raider, Pulp fiction, Intervista col vampiro, Seven, Mamma ho perso l’aereo, Up, e molti, molti altri. Anzi, a ben vedere, sono davvero pochi i promossi.
Ma questo non ci può veramente sorprendere se solo si ricorda che in fondo ci si aspetta che i film (e i libri, i telefilm, etc.) con protagonisti maschili siano adatti, e rivolti, a tutto il pubblico, che siano universali insomma (gli uomini sarebbero l’umanità intera, donne comprese, assimilate tout court all’esperienza maschile), mentre quelli con protagoniste femminili sono considerati rivolti solo alle donne (le donne sono solo donne, l’estensione a tutto il genere umano non vale per la prospettiva femminile, nemmeno per riflessione complementare alla maschile). Gli uomini fanno molta fatica a identificarsi con abbandono e senza riserve con un personaggio femminile, mentre le donne lo fanno costantemente.
Jennifer Kesler, in un articolo di giugno 2008, ha addirittura rivelato che alcune scuole di cinema insegnano espressamente agli sceneggiatori di scegliere come protagonisti esclusivamente uomini etero bianchi perché il pubblico può anche essere interessato a una donna, o a un uomo nero, o a un gay se si tratta di un personaggio affascinante, ma solo se non lo distrae troppo dai maschi bianchi che ha pagato per vedere.
Parlando della propria esperienza presso l’Università della California, la Kesler ha raccontato di come i suoi copioni venivano criticati proprio perché contenevano personaggi femminili (con un nome) che parlavano tra loro di altro che non fosse di uomini. “Il pubblico non vuole stare a sentire un gruppo di donne che parlano tra loro di qualunque sia ciò di cui parlano le donne”, ha tagliato corto un suo professore. Perderesti audience, le avevano detto, perché il pubblico maschile (quello che conta, evidentemente) quando nel mezzo del film c’è una scena con delle donne che dialogano tra loro si distrae, aspetta che finiscano di parlare di smalto, o di scarpe, o quello che è, e tornano a prestare attenzione solo quando sentono il nome di un uomo, perché allora può avere senso seguire la conversazione.
Parlando della propria esperienza presso l’Università della California, la Kesler ha raccontato di come i suoi copioni venivano criticati proprio perché contenevano personaggi femminili (con un nome) che parlavano tra loro di altro che non fosse di uomini. “Il pubblico non vuole stare a sentire un gruppo di donne che parlano tra loro di qualunque sia ciò di cui parlano le donne”, ha tagliato corto un suo professore. Perderesti audience, le avevano detto, perché il pubblico maschile (quello che conta, evidentemente) quando nel mezzo del film c’è una scena con delle donne che dialogano tra loro si distrae, aspetta che finiscano di parlare di smalto, o di scarpe, o quello che è, e tornano a prestare attenzione solo quando sentono il nome di un uomo, perché allora può avere senso seguire la conversazione.
Non so se è così, e voglio credere che non lo sia per tutti, ma se lo è anche solo parzialmente, ritengo sia un motivo sufficiente per cominciare a scrivere di più donne protagoniste in cui uomini e donne si possano ugualmente identificare, per somiglianza o per differenza, semplicemente perché sono dei bei personaggi, complessi, con delle storie, delle esperienze, e con qualcosa da dire.
Parliamone, perché siamo donne, abbiamo un nome e non siamo presenti solo quando parliamo di uomini.
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